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Economia & Lavoro

Il ritorno dello Stato imprenditore. E perché non dobbiamo vergognarcene

Il ritorno dello Stato nell’economia è una scelta strategica, non ideologica. Un intervento mirato può garantire stabilità e sviluppo, come accadde con l’IRI nel dopoguerra.

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Il Ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti (© Governo)
Il Ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti (© Governo)

«Nel 2022 aumenta il numero delle imprese a partecipazione pubblica attive nei settori dell’Industria e dei Servizi (+1,5 per cento), mentre diminuisce del 5,3 per cento il numero di addetti (839.025)».

Così si apre il recente rapporto dell’Istat. Ed è bastata questa frase per riaccendere le solite lamentazioni sulla mano lunga dello Stato, sull’«economia drogata», sull’ennesimo passo verso la statolatria. Ma a ben vedere, forse – e sottolineo forse – è giunto il momento di capovolgere il ragionamento. Perché non è detto che la presenza pubblica nell’economia sia un vizio. Potrebbe, anzi, tornare ad essere una virtù.

Una lezione che viene da lontano

C’è stato un tempo in cui l’Italia cresceva a ritmi vertiginosi, esportava know-how e costruiva acciaierie in Asia e in Sudamerica. Quel tempo aveva un nome: IRI. Un acronimo che oggi fa storcere il naso agli ideologi del mercato a ogni costo, ma che allora significava eccellenza tecnica, visione industriale, efficienza manageriale.

Benché fosse un ente pubblico, l’IRI non fu il carrozzone inefficiente di cui si favoleggia oggi, ma un’architettura industriale che ha traghettato il Paese dal disastro bellico al miracolo economico.

La realtà del nostro tempo

Ora veniamo all’oggi. Lo Stato torna a investire, a detenere quote, a salvare imprese strategiche, e subito si grida allo scandalo. Ma qual è l’alternativa? Lasciare che colossi strategici finiscano in mani straniere? Che aziende fondamentali per l’energia, la difesa o le infrastrutture scompaiano o vengano svendute al miglior offerente?

Il Documento di Finanza Pubblica prevede privatizzazioni per lo 0,8% del PIL nel triennio 2025-2027, ma nessuno – fortunatamente – sembra avere fretta. Perché privatizzare non è un dogma, e mantenere quote pubbliche non è eresia.

Non è statalismo, è responsabilità

Il governo Meloni, al netto delle tante contraddizioni che la gestione quotidiana comporta, ha il merito di aver riscoperto il valore dell’intervento pubblico mirato. Non si tratta di tornare allo Stato gestore di tutto, ma di riprendere il controllo laddove il mercato ha fallito o non è stato in grado di garantire stabilità, visione e sviluppo.

Anziché disturbare chi vuole fare, forse dovremmo aiutare lo Stato a fare meglio, mettendo in campo competenze, trasparenza e criteri manageriali.

Serve uno Stato forte, non invadente

C’è una differenza sostanziale tra lo Stato padrone e lo Stato stratega. Il primo soffoca, il secondo protegge. Il primo crea burocrazia, il secondo guida lo sviluppo.

L’Italia ha bisogno di quest’ultimo. Di uno Stato che abbia il coraggio di entrare dove serve, restare finché è utile, e ritirarsi quando le condizioni lo permettono. Non per fede ideologica, ma per buon senso economico.

Perché, e concludo, il mercato è un ottimo servitore ma un pessimo padrone. E a volte, anche i servitori, hanno bisogno di una guida.

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