Seguici su

Opinioni

Barbara Schiavulli: «Netanyahu non vuole la pace, proprio come Hamas»

La corrispondente di guerra Barbara Schiavulli commenta al DiariodelWeb.it il rifiuto, da parte del premier di Israele, della proposta di tregua in Palestina

Fabrizio Corgnati

Pubblicato

il

Benjamin Netanyahu
Il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu (© Fotogramma)

Nessuna tregua nella Striscia di Gaza. Mercoledì scorso il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha annunciato di aver rifiutato la proposta di Hamas di liberare tutti gli ostaggi, in cambio del ritiro completo dell’esercito israeliano. L’unico modo di arrivare alla pace è «sconfiggere Hamas», ha tagliato corto il premier: una dichiarazione che sembra fare il paio con tutte le narrazioni del conflitto portate avanti da parte dei grandi media occidentali, in quanto chiude la porta a ogni eventuale dialogo con la parte avversa e quindi a ogni prospettiva di cessate il fuoco. Il DiariodelWeb.it ne ha discusso con Barbara Schiavulli, giornalista, scrittrice, corrispondente di guerra e direttrice di Radio Bullet.

Barbara Schiavulli, abbiamo ragione a sostenere che il governo di Israele non vuole la pace?
L’ultima presa di posizione non mi sorprende per niente: credo che l’abbiano detto in tutte le lingue che la pace non la vogliono. Il punto, oggi, è capire quanto contano per loro, da un punto di vista umano, gli ostaggi e i civili che sono a Gaza.

Questa, dunque, è la linea politica del primo ministro israeliano?
Netanyahu, nel corso della sua carriera, ha sempre manifestato di non volere due Stati. Probabilmente ha verso i palestinesi lo stesso rispetto che gli afrikaans avevano verso i neri del Sudafrica ai tempi dell’apartheid. E poi c’è un altro fatto: nel momento in cui la guerra si fermasse, riprenderebbero i suoi problemi giudiziari. Quindi non ha nessuna ragione per approvare un cessate il fuoco.

Lei sostiene che Hamas sia funzionale a Israele, ma anche viceversa. Come in un castello di carte, si tengono in piedi l’una con l’altra?
Sì, di fatto si nutrono l’uno dell’altro. Neanche a Hamas farebbe comodo una pace, perché perderebbero potere. Ero lì nel 2006 quando vinsero le elezioni e sono abbastanza convinta che non esisterebbero proprio, se ci fosse uno Stato palestinese libero dall’occupazione. Ma il problema non sono solo loro, bensì tutti gli interessi internazionali che gravitano intorno.

In che senso?
In questo momento il conflitto è necessario per gli interessi economici degli Stati Uniti e dell’Europa. In questi giorni, per dire, l’Italia era presente in Arabia Saudita alla più importante fiera di armamenti. Io non vedo nessuno che parla di negoziato.

Lei è stata anche recentemente in Palestina. Lo stesso vale anche per la popolazione?
Sì. Che siano aderenti a Hamas o meno, combattenti o meno, estremisti o meno, oggi nessuno più crede nella prospettiva di due popoli e due Stati. Affermano che gli israeliani se ne devono andare, o al massimo prendere il passaporto palestinese. Questo è il dato che più mi ha stravolto, rispetto al passato. Dopo l’attacco del 7 ottobre e la risposta di Israele, credo che si sia fatto un giro di boa e la convivenza non sia più accettabile per nessuno, o quasi.

Questa polarizzazione così spinta, portata avanti dalla narrazione dei media occidentali, contribuisce dunque ad alimentare la guerra.
Questo fatto ha scoperto ancora di più l’immoralità occidentale, perché la democrazia e il rispetto dei diritti umani non valgono per tutti. Lo avevamo visto in Afghanistan, dove gli americani letteralmente svendettero le donne ai talebani, pur di poterne uscire. E lo vediamo ora in Palestina, dove si sostiene un potere occupante a scapito di persone che non riescono a vivere in maniera dignitosa, a mangiare, a curarsi, a trovare i pannolini per i bambini. Più che le ragioni o i torti degli Stati dovrebbe contare l’empatia verso le persone.

Prima di puntare il dito contro il nemico, dovremmo guardarci in faccia noi stessi.
Israeliani e palestinesi sono dentro una disputa ormai radicata, ma questa nostra fascinazione verso la guerra è terrificante. Noi dovremmo mantenere fermo il punto che i diritti umani non si violano e che l’unica risposta possibile a un problema è il negoziato.

Paradossalmente, la maggior parte della società civile la pensa proprio così, al contrario della politica.
Credo che, prese una per una, le persone non pensano che sia un bene quello che sta succedendo. Ma il potere è completamente scollato da quello che vuole la gente. Gli interessi economici contano di più. Trovo inaudito che l’Italia si sia astenuta nel voto per la risoluzione a favore della tregua umanitaria.

Riusciamo contemporaneamente a sostenere che la Russia è cattiva perché è l’invasore, ma Israele no, nonostante sia l’invasore.
E anche in questa ipocrisia conta molto la narrazione giornalistica, che dovrebbe solo raccontare i fatti, sui quali poi la gente deve formarsi la propria opinione. Invece questo metodo è stato scavallato in favore del giornalismo da influencer, che è molto pericoloso. Anche perché quando i giornalisti stanno dalla parte del potere abdicano al loro ruolo.

Lei raccontava che quando è stata recentemente in Palestina si è trovata quasi da sola.
Sì, sono rimasta molto sorpresa. Di solito, in certi contesti internazionali, ci sono duemila giornalisti. Possibile che, andando in giro, in un periodo di raid quotidiani, ho incontrato solo i reporter locali o quelli di Al Jazeera? Mi hanno contattato due giovani freelance italiane, ma che scrivevano per l’estero. Tutti gli altri sono lontano, a Gerusalemme, e magari si recano in Cisgiordania solo per scrivere una storia ogni tanto.

Le sembra normale?
Non è così che si è sempre lavorato. A Gaza, poi, non si può nemmeno entrare, a meno di essere embedded con gli israeliani che ti mostrano solo quello che vogliono loro.

Eppure viviamo nell’epoca dell’eccesso di informazioni, addirittura minuto per minuto grazie a Internet e i social. Possibile che alla fine siano tutte dalla stessa parte?
Io ho sempre detto che, seguendo gli esteri, non avevo grossi problemi, perché non spostano l’ago della bilancia dell’opinione pubblica italiana. Però su certi fatti sì: tra Israele e Palestina c’è sempre stato un tifo da stadio, oltre al fatto che gli israeliani sono i più bravi del mondo in fatto di propaganda. Però mi conforta che ormai il mainstream non è più l’unica fonte: sui social, soprattutto se si parla inglese, si può trovare da soli quello che sta succedendo.

A patto che non siano gli stessi algoritmi dei social i primi a censurare le opinioni fuori dal coro.
Vero, però vedi che c’è un giornalista di Gaza che ha oltre 16 milioni di follower: quello vale di più di qualsiasi giornale italiano e forse europeo. Lui è arrivato, in qualche modo. E quando è uscito da Gaza lo ha fatto per capire come la gente fuori potesse vivere senza fermarsi, quando vede ciò che sta avvenendo.

Questa è la vera domanda.
Come possiamo andare avanti con le nostre vite, scorrendo i video di persone fatte a pezzi? I social possono essere molto buoni se usati bene: hanno offerto uno sfogo ai dissidenti in Iran e Afghanistan che altrimenti non avrebbero trovato sui giornali o sulle televisioni tradizionali. Ma possono anche essere il luogo della propaganda. Dobbiamo imparare a usarli. Ma io confido molto sul senso critico delle persone, sul loro istinto alla sopravvivenza: perché quei fatti così devastanti potrebbero ripetersi altrove, e noi dobbiamo contrastarli in ogni modo. Non perché siamo buoni, ma perché siamo umani.

Continua a leggere le notizie di DiariodelWeb.it e segui la nostra pagina Facebook

2 Commenti

1 Commento

  1. DANILO FABBRONI

    12 Febbraio 2024 at 10:27

    Parole santissime ma purtroppo versi gettati al vento: la massa di persone è interessata alle immonde facezie sanremesi e basta. Brecht soleva dire che finché non verranno a prenderti nel tuo salotto di casa non ti renderai conto di quello che sta succedendo. Le onde di immigrati, oceaniche, musulmani per lo più trasformeranno tutta l’Europa in una enorme Striscia di Gaza ove si verificherà un domani neanche tanto lontano quello che oggi fingiamo di non vedere a Gaza. Siamo servi loro, non dei musulmani ma degli ALTRI.

  2. Avatar

    Ardmando

    25 Febbraio 2024 at 9:45

    Che Israele non voglia la pace era evidente sin dal momento in cui è iniziato tutto il giorno dopo l’inumano attacco del 7 Ottobre ad opera della feccia di Hamas. Era da parecchio tempo che Israele sapeva che cosa stava per scoppiare, sapevano che Hamas ammassava armi e munizioni e di conseguenza pianificava l’operazione militare. Erano anni che Israele attendeva una occasione simile per cancellare Hamas dalla faccia della Terra e non se l’è fatta sfuggire. Certo ci sono stati morti tra i civili israeliani, specie il 7 Ottobre, ma era un prezzo che erano pronti a pagare. Israele non si fermerà fino a che non avrà raso al suolo tutto e tutti e non accetterà mai una Nazione palestinese, d’altra parte non servirà a nessuno dal momento che non ci saranno più palestinesi. Gruppi come Hamas, Hezbolla e altri dell’universo islamico estremista, non hanno alcuna possibilità contro Israele, che vanta uno degli eserciti più potenti e meglio preparati del Mondo. E agli israeliani non ne frega assolutamente nulla dei civili che non siano israeliani. Finito a Gaza e Rafah, toccherà alla Cisgiordania. La guerra durerà a lungo e la pace ci sarà solo quando l’ultimo terrorista sarà stato spazzato via.

Tu cosa ne pensi?

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *