Opinioni
Giulio Meotti: «Così i progressisti stanno scavando la fossa al mondo occidentale»
Il giornalista e scrittore Giulio Meotti presenta al DiariodelWeb.it il suo ultimo libro «I nuovi barbari», edito da Lindau
Dai social network ai media mainstream, la stragrande maggioranza del mondo della cultura e dell’informazione sembra ormai contagiata dal morbo del pensiero unico. Tutte le voci dissonanti, tutte le idee differenti rispetto a quella dominante vengono attaccate, censurate, addirittura vietate. Una preoccupante degenerazione del discorso pubblico a cui il giornalista e scrittore Giulio Meotti ha dedicato il suo ultimo libro «I nuovi barbari. In Occidente è vietato pensare (e parlare)?», edito da Lindau.
Giulio Meotti, chi sono questi nuovi barbari?
Tutti quei pezzi di Occidente che ci stanno scavando la fossa dall’interno.
Ci faccia qualche esempio.
Pezzi di élite che lavorano a un mondo senza confini, di nazionalità plurime, di identità liquide. Che sognano come nuovo individuo del futuro un migrante con la valigia, per il quale lo Stato-nazione non ha più senso, anzi è fonte di conflitto.
E poi?
Quei pezzi di cultura che si sono messi in testa di lavorare a un nuovo tipo di società. Gli accademici che processano la storia occidentale in quanto sentina del male, depositaria di ogni ingiustizia. Gli ideologi che lavorano al gender, all’idea di una distruzione della differenza sessuale. E chi si frappone è squalificato come reazionario, conservatore, identitario, sovranista, populista.
Negli ultimi tre anni ci siamo resi chiaramente conto di come le opinioni diverse rispetto al pensiero unico vengano ridicolizzate, quando non addirittura criminalizzate.
L’idea è che, in una società ormai priva di qualunque tipo di autocoscienza identitaria, resta solo il cambiamento. Quindi non ti puoi opporre a esso.
I social si sono rivelati uno strumento formidabile in questo senso. Qualunque post dissenziente viene ricoperto da ondate di «shitstorm».
I social sono i centri di reclutamento, perché per loro natura si prestano molto bene. Sono nati in teoria per democraticizzare il dibattito, ma hanno finito per imporre, in nome della diversità, la mancanza di diversità di vedute.
Pensiamo alla recente acquisizione di Twitter da parte di Musk.
Finalmente un grande imprenditore miliardario, per loro sfortuna non di sinistra, ha deciso di liberalizzare la libertà di parola. E tutti a invocare istericamente la censura. I social funzionano solo se sono unidirezionali: se diventano veramente un’agorà, non va più bene.
Si denuncia il discorso di odio, il cosiddetto «hate speech».
Una delle più grandi imposture contemporanee. Se si esclude una infima minoranza, ad esempio i negazionisti dell’Olocausto, in tutti gli altri casi diventa solo uno strumento di repressione del dissenso.
Il paradosso principale è proprio che chi si definisce democratico, chi mette questo aggettivo finanche nel nome del proprio partito, poi è il primo a negare la libertà di opinione.
Perché non sono democratici, ma progressisti. Il progressismo è l’evoluzione del liberalismo. Fino a dieci-quindici anni fa tutte le istituzioni che vediamo conquistate da questa forma di neomarxismo culturale erano dominate dai liberali. E, tutto sommato, in parte funzionavano. C’erano alcuni casi d’intolleranza, ma anche una certa condivisione della diversità d’opinione.
Poi cos’è cambiato?
Che queste istituzioni si sono evolute. E i progressisti non accettano che si metta in discussione il cambiamento definitivo e fondamentale della società. Questa cosiddetta democrazia, nel profondo, è una sorta di oligarchia, un sistema incestuoso di porte girevoli. Sempre le stesse persone passano da Twitter, al giornalismo, alla politica. E promuovono questa ideologia senza fermarsi mai, come un rullo compressore.
Somiglia tanto a un totalitarismo.
Lo ha detto la grande scrittrice somala Ayaan Hirsi Ali, che i progressisti condividono un fanatismo simile a quello islamista, seppure con obiettivi diversi. Non sono a favore della sharia, ma dell’Lgbt. Però, in questa fase storica, sono alleati in nome della cosiddetta tolleranza, diversità e inclusione. Che però è lotta contro la cultura occidentale.
Vanno tutti tollerati, a patto che dicano quello che ci piace.
Entrambi i movimenti sono accomunati dall’odio verso il maschio bianco, cristiano, eterosessuale, un po’ sovranista, di cultura europea, a cui piace il vecchio mondo, che non vuole diventare un capro espiatorio della storia. Una forma di follia, di eterogenesi dei fini.
Ma è solo una follia, o c’è una precisa regia dietro? E a chi conviene?
Vari gruppi hanno in comune un progetto. Che, da un punto di vista economico, presuppone che ci trasformiamo tutti in belanti consumatori. Senza un punto di vista critico forte, alla faccia della retorica del «pensare con la nostra testa». Questo globalismo, che è diverso dalla globalizzazione com’era stata impostata all’inizio, giova a diversi gruppi d’interesse.
E dal punto di vista ideologico?
C’è la coalizzazione di vari movimenti. Gli ecologisti radicali che sognano la deindustrializzazione e la decrescita. I movimenti di decolonizzazione, come vediamo nei Paesi anglosassoni, che abbattono le statue, riscrivono i classici e i programmi accademici, cacciano gli studiosi. Gli antispecisti, che vogliono dare diritti agli animali. I gruppi Lgbt che lottano per l’uomo liquido. Gli islamisti che vogliono imporre i loro simboli.
Una galassia molto composita.
Una nebulosa che concorre al capovolgimento senza precedenti della vecchia Europa, che per 1500 anni era sempre rimasta sostanzialmente identica a se stessa.
Di esempi di questa cancel culture ce ne sono innumerevoli. Ma ce n’è uno che, nella scrittura del libro, l’ha colpita di più?
In Francia hanno deciso di cambiare nome all’opera dello scrittore Joseph Conrad «Il negro del Narciso», perché quella parola non andava più bene. O la bibbia della scienza e della medicina, «The Lancet», che decide di ribattezzare le donne «corpi con la vagina». L’assurdo di Ionesco ormai è dilagato a vari livelli.
Per non parlare di tutti gli accademici che hanno perso il proprio posto di lavoro.
O sono diventati degli infetti amorali, delle carogne. Spesso anche da sinistra. Questa barbarie culturale finisce per distruggere anche la sinistra classica, liberale e centrista. Perché il liberalismo, nel profondo, contiene i semi della propria autodistruzione.
I governi di centrodestra europei hanno chiaro questo problema?
Secondo me no, non ho nessuna illusione. Un caso diverso è l’Ungheria di Orban: che ci piaccia o no, è un governo identitario e sovranista che ha capito questo problema ed è riuscito a imporre un nuovo modello politico-culturale.
E in Italia?
Siamo sempre al già visto, anche quando arriva la destra al potere. Al di là degli slogan, non vedo capacità di rinnovamento di idee e di volti. L’aspetto positivo è che almeno questo governo non bombarda il quartier generale, non accelera i tempi, come invece accade in Spagna o in Germania.
Basterà?
Se si sta sulla difensiva, di fronte a un movimento ideologicamente molto violento, alla lunga la rivoluzione se non entra dalla porta entra dalla finestra. Dalle università, dalle Ong, dai giornali, dalle Regioni, dai sindaci.
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