Opinioni
Savino Balzano: «Con il salario minimo non cresceranno gli stipendi, anzi…»
Al DiariodelWeb.it il sindacalista ed esperto di diritto del lavoro Savino Balzano smonta la proposta di legge sul salario minimo avanzata dalle opposizioni unite
L’opposizione al governo Meloni ha trovato la sua bandiera da sventolare. Ovvero, la proposta di legge sul salario minimo, condivisa da sinistra e Movimento 5 stelle, che fisserebbe a 9 euro lordi all’ora la soglia al di sotto della quale non si potrebbe pagare un lavoratore. Ma siamo sicuri che la ricetta dei progressisti sarebbe quella giusta per far aumentare gli stipendi in Italia? Il DiariodelWeb.it lo ha chiesto a Savino Balzano, sindacalista ed esperto di diritto del lavoro.
Savino Balzano, intanto mettiamo in chiaro una cosa: chi è contrario al salario minimo non è per forza di destra, sovranista, fascista, brutto, cattivo o nemico dei lavoratori…
Questo è il livello del dibattito pubblico nel nostro Paese. Non solo su questo, ma su tutti i grandi temi in agenda.
Non è una novità, in effetti, stando a quanto abbiamo assistito negli ultimi tre anni.
L’abbiamo riscontrato durante la crisi sanitaria: chiunque provasse ad avanzare perplessità o dubbi, a mio avviso a ragione, veniva bollato come no vax. Allo stesso modo chi prova a mettere in discussione la narrazione prevalente sulla crisi internazionale immediatamente diventa un putiniano. Questo tema è fondamentale, riguarda milioni di persone, non possiamo permetterci di affrontarlo come se fossimo alla scuola dell’infanzia.
Eppure così lo presenta gran parte della politica e anche dell’informazione.
Lo ha fatto recentemente il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, in un editoriale intitolato «Il salario minimo non piace ai sovranisti», con il quale sembrava quasi rivolgersi alla maestra in classe perché mettesse i cattivi in punizione. Questo è avvilente, un dibattito pubblico sguaiato, da stadio, terribilmente superficiale, che non ci permette di capire i problemi che ci affliggono e conseguentemente di individuarne le soluzioni.
Proviamo noi a entrare un po’ nel dettaglio, allora. Tutti vogliamo che le retribuzioni dei lavoratori italiani salgano, ma siamo sicuri che il salario minimo sia il mezzo giusto per centrare questo obiettivo?
Quasi tutti i sostenitori del salario minimo citano un dato Ocse che io fui tra i primi a far presente: l’Italia è l’unico Paese in Europa ad aver registrato una regressione del potere d’acquisto reale dei salari. Lo leggiamo quotidianamente. Bene: non c’è alcuna connessione con il salario minimo.
In che senso?
Prendiamo i bancari, che hanno una retribuzione ampiamente superiore a 9 euro all’ora. Quarant’anni fa, con tre stipendi, si potevano comprare un’auto nuova; oggi bisogna vedere se riescono a cambiare un treno di gomme. Questo intervento non toccherà minimamente la condizione di quei lavoratori. Cioè, il salario minimo non serve a risolvere il problema dell’arretramento delle retribuzioni italiane, che riguarda tutti.
Insomma, la maggioranza dei lavoratori non sarebbe toccato da questa misura.
Vi voglio ricordare che il presidente di Confindustria, Bonomi, ha dichiarato che la questione del salario minimo lo lascia «indifferente». Se il capo degli industriali, per forza di cose sensibilissimi al tema salariale, non è toccato da questa proposta, bisognerebbe farsi qualche domanda. Persino il governatore uscente della Banca d’Italia, Visco, che a più riprese si è detto convinto della necessità di calmierare i salari, è assolutamente favorevole. Secondo voi sono più furbi Bonomi e Visco o Landini e la Schlein?
E a cosa servirebbe, allora, questo salario minimo?
Eventualmente a proteggere quella minoranza di lavoratori che ha un livello retributivo inferiore ai 9 euro all’ora. Questo è oggettivamente un problema che è giusto risolvere. Il salario minimo sarebbe una soluzione per alcuni, escludendo ad esempio tutto il mondo del lavoro nero. Il problema è: a che costo? In un contesto come quello italiano, secondo me, gli effetti negativi potrebbero essere enormi, di gran lunga superiori rispetto a quelli positivi.
Quali sono i rischi che intravede?
In uno scenario in cui i lavoratori hanno un forte potere contrattuale, il salario minimo svolge una funzione di slancio, di trampolino per le retribuzioni. Ma nel contesto in cui viviamo oggi, rischia di diventare una zavorra: addirittura di spingere verso il basso quei lavoratori che oggi hanno un livello retributivo superiore.
Quindi può diventare un’occasione addirittura per ridurre gli stipendi?
Sì, perché quando sei al tavolo sindacale e il legislatore si assume la responsabilità di determinare il livello minimo retributivo, l’impresa ti dirà: «Perché mi vieni a chiedere di più?». Molti di quelli che parlano di lavoro non hanno mai fatto una trattativa in vita loro, questo è il problema. Il salario minimo significherebbe firmare una cambiale in bianco alla politica.
Cosa intende dire?
Che la politica avrà, di volta in volta, il potere di fissare questo minimo. E se a un certo punto, alla luce di una nuova eventuale emergenza, dicesse che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, sarebbe così difficile fare un bel Dpcm per scendere a 7 euro all’ora? Avete sentito la Fornero che dice che 9 euro sono troppi, no?
Ma allora quali sono le vere cause dell’arretramento dei salari italiani?
Sono così gravi e realizzate nel tempo, negli ultimi trent’anni, che pensare di risolverle con una leggina a me pare di un’ingenuità disarmante. Fondamentalmente sono due: una strutturale e una sovrastrutturale.
Cominciamo dalla prima.
Che è di tipo economico. Quello del lavoro è un mercato, che funziona come tutti gli altri. Il costo è regolato dall’incontro tra domanda e offerta: se si crea un eccesso di lavoratori succede esattamente quello che accade quando c’è un eccesso di latte. Cioè, il costo crolla, insieme al potere contrattuale dei produttori di dettare le condizioni. Abbandonando le politiche economiche espansive, antiregressive, votate alla piena occupazione, previste dalla nostra Costituzione, si è generata una disoccupazione voluta e la comunità del lavoro ha perso moltissimi diritti, compresa la rivendicazione dei miglioramenti retributivi.
Il paradosso è che a eliminare molti di questi diritti sono stati gli stessi che oggi propongono il salario minimo.
Certo. Quello che mi inorridisce è che le politiche dell’austerità sono state sostenute e foraggiate proprio dai sindacati e dalle cosiddette forze progressiste.
E la seconda causa, quella sovrastrutturale?
La definisco così perché è conseguenza della prima. Quando perdi potere contrattuale, non riesci più a difendere ciò che hai ottenuto in passato: così si è aperta la voragine della precarietà, che ha alimentato il circolo vizioso. Se sei esposto al rischio di perdere l’impiego, alle ritorsioni del datore di lavoro in caso di partecipazione democratica, smetterai di rivendicare per paura. E quindi perdi ulteriore terreno, anche sul piano retributivo.
E chi ha alimentato la precarietà in Italia?
Sempre gli stessi: i governi tecnici, quelli del «ce lo chiede l’Europa», e i progressisti. La peggior riforma in tal senso fu il jobs act, che porta la firma del Pd di Renzi. Per rispondere a Molinari, gli unici che provarono a porre un freno furono proprio quelli che lui definisce sovranisti: il governo gialloverde con il decreto Dignità, che limitava il ricorso ai contratti atipici.
Quindi non ha tutti i torti la Meloni quando dice che non serve fissare un salario minimo, ma creare le condizioni economiche per aumentare gli stipendi.
Assolutamente no. Il problema è che mentre dice, giustamente, di voler rafforzare la contrattazione collettiva, dall’altro lato con il suo decreto Lavoro ha aumentato la precarietà. Addirittura consente all’impresa e al singolo lavoratore di determinare le causali del contratto a tempo determinato: questo non era mai accaduto. Quantomeno ora le causali ci sono, il Pd le aveva proprio tolte…
Detto che la questione è complessa e non si può risolvere con una formula magica, se fosse lei il ministro del Lavoro che direzione intraprenderebbe?
Il percorso è dolorosissimo e difficile e non basta neanche il ministro del Lavoro. La questione non riguarda solo l’occupabilità, ma l’occupazione. Per creare posti di lavoro c’è solo una ricetta: quella degli investimenti pubblici. Finché siamo stretti nel cappio che non ci consente di farlo, perché abbiamo abdicato alla nostra sovranità in politica economica, monetaria e fiscale in favore dell’Europa, non sarà assolutamente possibile. Il problema da scardinare è proprio il modello della globalizzazione.
Se servono investimenti, il Pnrr potrebbe aiutare.
Fermo restando il fatto che, in questo modello, il Pnrr è un debito che dovremo scontare in futuro, senza poter battere altra moneta, perché l’Europa ce lo impedirà. Stanno già parlando di patto di stabilità, di rimettere i conti in ordine, di tornare in avanzo primario… Il Pnrr rischia di diventare un’arma a doppio taglio: tutte queste infrastrutture, se non potremo assumere il personale che le gestisce, saranno delle cattedrali nel deserto.
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