Opinioni
Vincenzo Baldini: «Perché la democrazia è in crisi (e i cittadini non votano più)»
Il costituzionalista Vincenzo Baldini commenta al DiariodelWeb.it lo stato di salute del sistema democratico in Italia e nel mondo, in un anno di grandi elezioni
Le regionali in Sardegna e in Abruzzo, che hanno monopolizzato l’attenzione della politica nazionale nelle ultime settimane, sono andate in archivio. Ma il calendario delle consultazioni che ci attendono nel 2024, in compenso, si è appena aperto. Nei mesi a venire saranno chiamati alle urne anche i residenti della Basilicata, del Piemonte e dell’Umbria, nonché quelli di oltre tremila Comuni italiani, per le amministrative, poi 400 milioni di europei per eleggere il nuovo parlamento della Ue, ma anche i cittadini di nazioni chiave come Russia (che ha votato questo weekend), Stati Uniti, Regno Unito, Portogallo, Austria, Belgio, Iran, India e non solo. In totale saranno 76 i Paesi che andranno al voto, per l’anno definito più elettorale di sempre.
La domanda che aleggia, però, è più generale: se l’istituto delle elezioni sembra godere di ottima salute, forse lo stesso non si può dire della democrazia come sistema. Tanto che l’affluenza al voto sia in Sardegna che in Abruzzo ha registrato un ulteriore calo di quasi un punto percentuale rispetto alla precedente tornata, attestandosi poco sopra la metà degli aventi diritto. Un dato che i politici commentano sempre con preoccupazione in occasione di ogni exit poll, salvo poi dimenticarsene fino alla volta successiva. Il DiariodelWeb.it ne ha parlato con il professor Vincenzo Baldini, professore ordinario di Diritto costituzionale e insegna all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale.
Professor Vincenzo Baldini, come giudica lo stato di forma della democrazia in Occidente?
Vive di alti e bassi. Soprattutto in alcuni Paesi europei, come Ungheria, Polonia, Romania, vanno maturando tendenze antidemocratiche che sembrano assecondare una deriva di autoritarismo politico, con la progressiva elisione di garanzie fondamentali dello Stato di diritto, il ruolo e i poteri della magistratura e della Corte costituzionale. Non possiamo dire che la democrazia goda ovunque di ottima salute, anche se come forma organizzativa dello Stato non ci potranno essere valide alternative, almeno nell’esperienza europea.
Per quali ragioni?
C’è un concorso di ragioni, non una soltanto. Tra queste, un’evidente crisi della logica, prima ancora che del funzionamento, della democrazia parlamentare. I meccanismi di tale assetto e del sistema dei partiti oggi non sembrano più offrire garanzie di efficienza e rappresentatività, per questo soffrono una condizione di sfiducia sociale e, probabilmente, nemmeno a torto.
Che errori hanno commesso i partiti, dal suo punto di vista?
Hanno interrotto progressivamente il cordone ombelicale con la società civile, si sono andati progressivamente emancipando, salvo i momenti delle campagne elettorali. Hanno dismesso quella cura dei rapporti con la base che un tempo non mancava attraverso un’efficiente e capillare organizzazione sul territorio delle segreterie e un dialogo sempre aperto con le formazioni sociali locali.
Anche in Italia?
Ciò si sta registrando un po’ ovunque, ma nel nostro Paese in maniera particolarmente evidente. Le decisioni politiche sono assunte soprattutto attraverso il dialogo con i grandi soggetti globali e con enti e istituzioni di rilevanza internazionale e sovranazionale. Non sempre però tali decisioni sono avvertite come favorevoli per gli interessi generali da parte della comunità nazionale.
E quindi la politica finisce per essere poco rappresentativa, che è un grosso problema in un sistema improntato proprio sulla democrazia rappresentativa.
La rappresentatività non è una condizione giuridica dello status di parlamentare, ma una condizione di fatto, che si risolve nella corrispondenza dell’azione parlamentare alla volontà del corpo elettorale. I parlamentari, ai sensi della Costituzione, sono rappresentanti della nazione in quanto eletti a suffragio universale e diretto. Non è detto, dunque, che siano anche o sempre rappresentativi. E di questi tempi, la loro rappresentatività, vale a dire l’identificazione effettiva della comunità sociale, appare molto precaria, per non dire assente.
Lo abbiamo visto plasticamente sia durante la pandemia, con le proteste della popolazione nei confronti delle restrizioni.
Sicuramente. Durante la pandemia abbiamo assistito a un’escalation progressiva di misure limitative delle libertà costituzionali, difficile da giustificare anche sul piano del diritto, soprattutto se si commisura alla chiara impronta liberale data dai costituenti. È stato un periodo di costrizioni esagerate nella dimensione e sproporzionate nell’intensità. Resto dell’avviso che le compressioni dei diritti in questione abbiano travalicato la sfera della proporzionalità ed eluso ogni seria attenzione al parametro di adeguatezza.
Eppure la Corte costituzionale ha salvato l’intero ordinamento dell’emergenza.
Con motivazioni, a mio avviso, poco convincenti. Del resto, è noto che il giudice costituzionale non resta impermeabile al vento della politica istituzionale. Forse la consapevolezza che una pronuncia d’illegittimità avrebbe potuto scatenare un terremoto politico un po’ l’ha frenata nel giudizio. Comunque, resta una pagina brutta della storia costituzionale e politica del nostro Paese.
All’epoca ci sarebbe stato bisogno di una presa di posizione più netta da parte dei parlamentari, semmai.
Molte voci tra i politici e i parlamentari si levano ora contro quelle misure e questo è comunque un bene, indica un risveglio critico del sistema politico che va salutato con favore. Tuttavia, non posso fare a meno di chiedermi dove fossero i politici che oggi, con voce netta, criticano le misure draconiane che hanno chiuso gli italiani in una morsa stretta di privazione di libertà. All’epoca, tranne qualche voce sparuta, non ho sentito forti squilli di voci contrarie in aula. Quasi tutto il parlamento sosteneva la maggioranza di governo e la minuta opposizione rimaneva comunque piuttosto silente.
Lo stesso si può dire oggi per la guerra in Ucraina: i sondaggi ci restituiscono una cittadinanza non interventista, eppure non esiste nemmeno un partito in parlamento che sostenga questa posizione.
Faccio una premessa: valuto la questione esclusivamente dal punto di vista giuridico-internazionale. È un piano, questo, in cui il principio di non aggressione bellica di uno Stato da parte di altro Stato assume forza di norma consuetudinaria dal valore assoluto. Nella questione che ci occupa è innegabile individuare uno Stato aggressore ed uno Stato aggredito. In questo senso, che prescinde del tutto da ogni considerazione delle ragioni politiche sottostanti, ritengo l’azione della Russia illegittima e inaccettabile.
Non c’è dubbio.
Nondimeno, è lecito da parte di tutti, a cominciare da me, chiedersi se la strenua difesa dell’Ucraina sia dovuta unicamente alla doverosa risposta ad una violazione del diritto internazionale oppure celi altre ragioni che, naturalmente, sfuggono del tutto alla conoscenza della comunità. Esprimo solidarietà a tutti coloro che soffrono a causa degli eventi bellici: il dolore non ha colore politico o bandiera nazionale, riguarda chi perde la vita o vede perderla a propri cari, di chi è costretto a fuggire allontanandosi così dalla propria terra e dai propri affetti. Dovunque vi sia nel mondo la guerra c’è sofferenza e io mi sento vicino a chiunque soffra per queste ragioni.
Sarebbe interessante dare maggior partecipazione ai cittadini anche su questi temi.
Come è noto, la Costituzione esclude l’ammissibilità di referendum abrogativi su atti di ratifica ed esecuzione di trattati internazionali, come anche relativi ad adempimenti di obblighi internazionali vincolati. I costituenti hanno escluso tale possibilità nella considerazione, all’epoca senz’altro opportuna, che si trattava di una materia su cui i cittadini non avrebbero avuto la necessaria esperienza per decidere. Non dobbiamo dimenticare che dopo l’unificazione e prima dell’avvento della Costituzione del ’48, l’Italia non aveva mai vissuto esperienze di governo democratico, ma era passata senza soluzione di continuità dallo Stato liberale a quello totalitario fascista, ragion per cui la complessità della materia internazionale, unitamente alla limitatezza delle fonti d’informazione facevano ritenere quest’ultima poco commestibile per la gente comune.
E oggi?
Tale condizione oggi non esiste più: le fonti d’informazione sono numerose e plurali, c’è in generale una maggiore consapevolezza politica nei singoli. Personalmente auspico una revisione costituzionale che introduca un referendum consultivo sulla ratifica ed esecuzione dei trattati internazionali, soprattutto di quelli che causano sensibili trasferimenti di quote di sovranità verso istituti e soggetti di diritto internazionale e sovranazionale. A mio avviso sarebbe un significativo passo in avanti sulla via di ampliare la sfera della partecipazione democratica diretta dei cittadini.
Anche perché se vogliamo combattere contro uno Stato antidemocratico come la Russia, non possiamo essere noi occidentali per primi a mettere in atto comportamenti discutibili.
Sono d’accordo. Se non siamo un buon esempio per tutti i Paesi che non vivono la democrazia o non rispettano i diritti e le libertà fondamentali, rischiamo di apparire ipocriti e inaffidabili, non di esportare modelli plausibili di convivenza. Sulla vicenda russo-ucraina avrei auspicato un più insistito impegno politico dei Paesi europei, o della Ue, per scongiurare il ricorso alla forza militare. Il fatto che ora la politica sia arretrata lasciando il campo alle armi è un gravissimo errore e una responsabilità generale di tutti i Paesi autenticamente democratici. Quando si scende sul piano militare, tornare poi alla diplomazia per la ricerca di una soluzione equa anche sul piano del diritto internazionale è complicatissimo.
Insomma, la via d’uscita dalla crisi del parlamentarismo è quello di spingere ancora di più verso la democrazia, cioè dare ai cittadini più possibilità di esprimersi, non solo chiamandoli alle urne ogni quattro anni.
Oggi alle elezioni si presenta sì e no la metà dei cittadini aventi diritto al voto. Ma la disaffezione alla politica non è una causa, bensì un sintomo della crisi della democrazia. Se non si cura la causa non si può sperare che scompaia anche il sintomo. In proposito, non serve l’impegno del diritto, con previsioni sanzionatorie per chi non vota: serve l’avvio di una vera cultura dell’agire democratico, che alla responsabilità del singolo cittadino faccia corrispondere anche un’etica di responsabilità dei parlamentari rappresentanti della nazione, non delle singole fazioni partitiche.
I cittadini non vanno più a votare perché hanno capito che le decisioni vengono prese altrove.
La percezione comune è che votare non serva a molto, che le maggioranze di qualunque colore politico corrispondano ai medesimi interessi dei grandi soggetti dell’economia globale, che i politici si occupino soprattutto di salvaguardare il proprio vantaggio personale. Occorrerebbe smantellare queste sovrastrutture del pensiero attraverso una diversa condotta dei soggetti politici, soprattutto attraverso la creazione di un rapporto più integrato con la base. Ci sono domande politiche, oggigiorno, prive del tutto di rappresentatività.
E questi sentimenti non si possono cambiare per legge.
Non sempre la cura è la norma o il divieto, spesso è di ordine etico, morale, culturale. Bisognerebbe rilanciare un approccio diverso.
Cioè fare in modo che la politica si assuma nuovamente la propria centralità, il proprio potere e anche la propria responsabilità.
Il dialogo e la percezione dei bisogni della comunità di riferimento è una condizione naturale della democrazia, equivale ad entrare in una relazione sostanziale reale e non formale con tale comunità, recepirne i bisogni e rappresentarne le istanze. C’è soprattutto bisogno di una nuova etica della responsabilità in chi svolge ruoli di impegno politico e istituzionale, che non può essere tradita sistematicamente.
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