Politica
Le lacrime dell’élite, i silenzi del 2011 e l’ipocrisia a corrente alternata
Chi oggi grida contro la UE per l’accordo con gli USA sui dazi, è lo stesso che festeggiò la cacciata di Berlusconi nel 2011. Un déjà-vu che svela l’ipocrisia a corrente alternata.

Ci sono giorni in cui la storia bussa alle porte. E poi ci sono giorni, come questi, in cui sfonda il portone. Perché vedere oggi le stesse voci che festeggiarono la cacciata di Silvio Berlusconi nel 2011, gridare allo scandalo per un accordo commerciale fra Trump e Ursula von der Leyen, è un esercizio che richiede stomaco forte e memoria lunga.
Allora era il tempo del “fate presto”. Lo invocava a caratteri cubitali Il Sole 24 Ore, lo mormorava Mario Draghi da Francoforte, lo disponeva Giorgio Napolitano dal Quirinale. Un paese intero fu commissariato, senza che una sola lacrima venisse versata dalle stesse penne e dai medesimi microfoni che oggi stigmatizzano l’ingerenza americana nei dazi.
Il vero dazio lo pagammo allora
Altro che accordi commerciali. Quello del 2011 fu un dazio politico, e per giunta pagato in anticipo. Un’operazione chirurgica portata avanti con la benedizione di agenzie di rating americane, con il supporto della Banca centrale europea e con la sponda della Nato impegnata a ridisegnare la Libia per compiacere la grandeur francese.
Eppure nessuno allora gridava allo scandalo. Anzi: si applaudiva mentre veniva imposta all’Italia un’austerity feroce, che neppure la Germania aveva mai dovuto subire. Il debito pubblico non migliorò, lo spread si normalizzò, ma l’unico effetto fu quello di eliminare un governo legittimamente eletto.
Oggi, improvvisamente sovranisti
Ed eccoli, oggi, gli stessi editorialisti e i medesimi politici, rispolverare il tricolore per denunciare l’accordo sui dazi fra Stati Uniti e Unione Europea. Con toni quasi “no global”, si stracciano le vesti contro la Commissione Europea, guidata da una tedesca moderata. Peccato che quando la bacchetta dell’Unione era nelle mani di Monti, Prodi e Bonino, il silenzio fosse d’obbligo.
Perché la verità, signori, è semplice: ciò che allora fu accettabile perché serviva a sconfiggere un nemico interno, oggi diventa inaccettabile solo perché a guidare l’America non c’è Obama, ma Donald Trump. Allora, come sempre, vale più la fazione della nazione.
Il potere non è mai neutro
Nel 2011 la crisi dello spread fu un gioco di forza geopolitica, e poco aveva a che fare con l’economia. Come oggi, i rapporti di potere dominano sulle regole, sui trattati e persino sui mercati. Ma se allora nessuno fiatava, oggi l’urlo è ipocrita. Perché non si protesta contro il metodo, ma contro il risultato. Non si condanna l’ingerenza, ma chi la esercita oggi.
C’è una lezione, però, che vale la pena salvare da questo teatrino. Il mondo del 2011 non c’è più: non c’è più a Bruxelles, né a Parigi, né a Berlino. E forse nemmeno a Roma. Le grandi famiglie europeiste che decidevano per tutti sono sparite o ridimensionate. E con esse l’illusione che esista un solo modello di democrazia legittimo.
Il nuovo ordine multipolare – che piaccia o meno – impone compromessi e non obbedienze, alleanze e non vassallaggi. Chi oggi si straccia le vesti per un accordo tra Washington e Bruxelles, dovrebbe guardarsi allo specchio. E chiedersi dove fosse nel 2011, quando l’Italia fu venduta all’ingrosso per un pugno di spread.
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