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Salute mentale e lavoro: perché i dipendenti italiani restano in silenzio

Solo un terzo dei lavoratori parla di salute mentale con il capo, il 51% teme danni alla carriera e l’84% vede i disturbi psicologici come più difficili da rivelare rispetto a malattie fisiche

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Salute mentale e lavoro
Salute mentale e lavoro (© Depositphotos)

Il dibattito sulla salute mentale nei luoghi di lavoro è cresciuto negli ultimi anni, ma i numeri raccontano una realtà ancora segnata dal silenzio. L’indagine di Unobravo rivela che in Italia esiste un forte stigma legato al disagio psicologico: i dipendenti, pur riconoscendo l’importanza del benessere, spesso evitano di parlarne con i propri superiori per timore di conseguenze sulla carriera.

I dati principali dell’indagine

Secondo il report, il quadro è chiaro:

  • Solo il 33,5% dei lavoratori si sente a proprio agio nel parlare di salute mentale con il proprio capo;
  • Il 51,1% teme che farlo possa avere un impatto negativo sul percorso professionale;
  • L’84,7% considera i disturbi psicologici la condizione più difficile da rivelare, più di una malattia fisica;
  • Tra i problemi meno condivisi spiccano la depressione (46,1%) e lo stress o burnout (41%).

Questi dati mostrano come il disagio mentale, pur diffuso, resti nascosto. A settembre, in particolare, il rientro dalle vacanze si trasforma in un momento critico: circa un lavoratore su quattro teme il burnout o la sensazione di fallimento personale. Le fasce più giovani, tra i 20 e i 24 anni, si dichiarano le più vulnerabili, schiacciate da pressioni lavorative ed economiche, ma anche da un forte senso di confronto con gli altri.

Paure e silenzi

Perché i lavoratori scelgono il silenzio? Le ragioni sono molteplici e spesso intrecciate. Un quarto degli intervistati non si fida dei propri dirigenti, convinto che non comprendano o non si interessino alla salute mentale. Quasi il 24% teme di apparire debole o poco professionale, mentre il 19% teme ripercussioni dirette sulla carriera o sulla sicurezza del posto di lavoro. A ciò si aggiunge il fatto che in molte realtà aziendali manca un contesto che incoraggi realmente il dialogo, e il risultato è che il disagio rimane invisibile, crescendo sotto traccia fino a esplodere in forme più gravi.

Quando il malessere diventa dimissioni

Le conseguenze sono tangibili. Più del 60% dei lavoratori ha dichiarato di aver vissuto almeno un episodio di burnout, mentre quasi il 20% ha lasciato un impiego per motivi legati allo stress o a problemi psicologici. Il fenomeno è più diffuso tra chi lavora da remoto: il 28% di loro ha abbandonato il posto per proteggere la propria salute mentale. Anche le differenze di genere sono significative: le donne risultano più propense a considerare o attuare un cambio di lavoro per sfuggire allo stress.

Cosa chiedono i lavoratori alle aziende

Se il problema è diffuso, non mancano però le richieste di soluzioni. Dall’indagine emergono quattro priorità fondamentali:

  1. Formazione dei dirigenti per renderli consapevoli e capaci di gestire conversazioni delicate sulla salute mentale (46,3%);
  2. Iniziative aziendali dedicate al benessere psicologico, come programmi strutturati e momenti di confronto (31,3%);
  3. Canali di supporto anonimi, in grado di garantire riservatezza a chi ha bisogno di aiuto (15,5%);
  4. Maggiore trasparenza e visibilità sulle risorse disponibili, oggi poco note al 66,4% dei dipendenti.

Si tratta di misure concrete che, se adottate, potrebbero trasformare lo stigma in consapevolezza condivisa e ridurre i rischi di burnout e abbandono.

Verso una nuova cultura aziendale

Superare lo stigma significa costruire un ambiente di lavoro più umano e inclusivo. Le aziende hanno il compito di rendere visibile il sostegno psicologico, formare i manager come figure di ascolto e introdurre strumenti che favoriscano il dialogo. Creare una cultura empatica e aperta vuol dire riconoscere i dipendenti come persone, non solo come risorse produttive.

Se le politiche aziendali resteranno sulla carta, i dati continueranno a parlare di silenzi, stress e dimissioni. Ma se si sceglierà la via della concretezza, il lavoro potrà tornare a essere un luogo di crescita e benessere condiviso.

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