Opinioni
Alessio Gasperini: «Le vittime della guerra sono sempre i poveracci di ogni nazione»
I cittadini milanesi scendono in piazza contro la guerra: parla al DiariodelWeb.it Alessio Gasperini, del comitato organizzatore Miracolo a Milano
Si comincia a sentire finalmente la voce del dissenso. Quella della maggioranza degli italiani che, sondaggi alla mano, non sono d’accordo con la strategia occidentale di gestione del conflitto e forse anche di tutte le crisi che ci hanno colpito negli ultimi anni, pandemia in testa. Si sente non solo sui social network, ma anche nelle piazze, come dimostra la manifestazione eloquentemente intitolata «Mamma, non aspettarmi: il fine settimana lo passo in piazza contro la guerra», organizzata lo scorso weekend a Milano. Il DiariodelWeb.it ha intervistato Alessio Gasperini, tra gli organizzatori del comitato Miracolo a Milano: «Un comitato di cittadini, spontaneo, politico ma non partitico», spiega.
Alessio Gasperini, da dove è nata l’idea di questo evento?
L’idea era quella di organizzare un presidio, un po’ diverso dalle solite manifestazioni o convegni. Volevamo scendere in piazza, anche per riappropriarci del dibattito politico e del confronto, diverso da quello offerto dai media generalisti.
Può sembrare quasi anacronistico oggi manifestare in piazza, nell’epoca della protesta sui social media.
E noi lo rivendichiamo esplicitamente. Siamo profondamente convinti che il dissenso da social, per quanto possa aiutare a scambiarsi informazioni, non trovi sbocco nella realtà. Noi vogliamo rompere gli schemi della società dello spettacolo, uscire dalla digitalizzazione che capillarmente ha pervaso tutta la nostra società. Oggigiorno essere antichi sembra quasi progressista.
Come hanno risposto i milanesi?
La manifestazione è durata due giorni proprio per cercare di intercettare il più possibile il viavai a due passi dal Duomo. E, con il volantinaggio, le chiacchiere, le discussioni, gli approfondimenti ma anche i contributi artistici, letterari e musicali ci siamo riusciti. Tanti passanti, che non ci conoscevano, non solo si sono incuriositi, ma sono rimasti fino alla fine. Questo è un successo per il dissenso, che di solito fatica a comunicare con i meno informati e finisce per diventare autoreferenziale.
Che posizione avete sull’invio delle armi in Ucraina?
Come afferma la stessa Costituzione, siamo assolutamente contrari all’uso della «guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali». Auspicheremmo, da parte del nostro Paese, una posizione diplomatica solida e indipendente, slegata dal carrozzone dell’Unione europea e della Nato, che ci trainano alla loro politica estera, ma non sono in linea con i valori della nostra Carta costituzionale.
In che senso?
Se analizziamo gran parte dei conflitti degli ultimi decenni, le stesse alleanze occidentali sono spesso nell’illegalità diplomatica internazionale.
Pensate lo stesso anche per quanto riguarda le sanzioni alla Russia?
Le sanzioni, anche militarmente, non sembrano portare gli effetti auspicati. Non è facile colpire la Russia, Paese che ha a disposizione grandi riserve di materie prime, come si è fatto in passato con altri più piccoli, ad esempio la Siria.
Temete un’escalation della dimensione di questa guerra?
Il rischio c’è. Se il nostro Paese intende continuare a seguire questa eterodirezione, rischiamo di vederci franare addosso la storia. Andrebbero comprese le ragioni storiche, perché il contesto non è esattamente quello che ci viene descritto, di aggressore e aggredito, autocrazia contro democrazia, bensì rientra in un’ottica più ampia, che va avanti almeno da qualche decennio. E, comunque la si guardi, le vittime sono sempre le masse popolari, i poveracci di ogni nazione.
Quando parlate di guerra, però, non vi limitate solo al conflitto in Ucraina.
Abbiamo declinato la guerra anche da altri punti di vista. Prima di tutto quella «interna», prendendo a prestito le parole che Margaret Thatcher pronunciò dopo le Falkland. Cioè una guerra economica, che ha conseguenze sul carovita, sulle bollette, sulla chiusura delle imprese. E che negli ultimi anni è diventato una svolta autoritaria, una compressione continua dei diritti: un atto ostile, appunto.
Avete parlato anche del pluralismo dell’informazione.
Questa è la guerra propagandistica, «cognitiva», come è stata definita dagli stessi vertici Nato. Una guerra ai cuori, alle menti, per il controllo dell’opinione pubblica e la gestione del consenso.
Dunque voi tracciate un filo conduttore tra la guerra in Ucraina, la pandemia e le altre crisi degli ultimi anni.
Il filo conduttore è proprio lo stesso emergenzialismo. Perché l’emergenza, di fatto, scardina la legalità e lo spirito democratico. Le sue logiche giustificano qualsiasi sacrificio, anche i più impopolari. Il dubbio è che finisca per spingere agende politiche già in programma, ma che in questo contesto si possono compiere più facilmente.
A cosa si riferisce?
Cito Stefano Quintarelli, ex parlamentare montiano, l’inventore dello Spid, che in un’intervista disse: «Dobbiamo dire grazie al Covid». Perché l’introduzione dell’identità digitale è stata facilitata dal contesto di emergenza stesso. Ma anche Padoa Schioppa, che nel 2004 al Corriere della Sera dichiarò che «gli italiani dovranno tornare a sperimentare la durezza del vivere». O, più recentemente, «non avrete nulla e sarete felici», del World Economic Forum.
In pratica?
Pensiamo allo shock della perdita dell’approvvigionamento energetico dalla Russia, di fatto il principale fornitore. Quel processo di «decimazione», come l’ha definita Boldrin, della piccola e media impresa in favore di grandi multinazionali che si pappano interamente il settore, nella guerra e nelle sue conseguenze si attua più facilmente. Tutto ciò viene letto dall’opinione pubblica come inevitabile, fatalistico, non come una politica ai suoi danni.
Che altre iniziative avete in programma?
Sicuramente parteciperemo alla mobilitazione del primo maggio a Pesaro sui biolaboratori: in Italia sono in via di creazione istituti che si occupano di manipolazione in vitro di agenti patogeni e virali, che noi non vorremmo. E poi il 13 maggio torneremo in piazza sul tema della sanità, per parlare dello smantellamento del sistema sanitario nazionale.
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