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Opinioni

Gilberto Trombetta: «Le elezioni europee non cambieranno nulla nell’Unione»

Il giornalista esperto in economia Gilberto Trombetta commenta al DiariodelWeb.it le prospettive per l’Unione dopo le elezioni europee in programma questo weekend

Fabrizio Corgnati

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Il parlamento europeo di Bruxelles (© Fotogramma)

Questo weekend sono in programma le elezioni europee: i cittadini dell’Unione eleggeranno la composizione del prossimo parlamento di Bruxelles. Ma le indicazioni degli elettori potranno davvero dare una svolta alle politiche comunitarie, negli ultimi anni non solo controverse e criticate ma spesso anche inefficaci alla prova dei fatti? Il DiariodelWeb.it lo ha chiesto a Gilberto Trombetta, giornalista esperto in economia.

Gilberto Trombetta, che cosa si aspetta da queste elezioni europee?
Non mi aspetto un cambiamento sostanziale, a prescindere dall’esito.

Come mai?
Innanzitutto perché il parlamento europeo è un organo quasi svuotato di significato e di potere, rispetto a ciò che intendiamo con il termine «parlamento» in qualunque democrazia. È vero che ha voce in capitolo sulla nomina della Commissione, ma tutte le decisioni importanti non passano dall’assemblea. Può anche sfiduciarla, ma rispettando condizioni tali che sostanzialmente si tratta di un processo nei fatti impossibile.

Dunque l’Europa non cambierà, qualunque sia la maggioranza indicata dagli elettori?
No, perché non è all’orizzonte una maggioranza antieuropeista, cioè il cui scopo dichiarato sia la disgregazione concordata dell’Unione europea. Dal mio punto di vista di antiunionista, un parlamento ultraeuropeista, che sogna gli Stati Uniti d’Europa, o vagamente euroscettico non cambia niente.

Questa Unione è irriformabile?
L’unica possibilità è la sua disgregazione concordata. Una riforma di stampo keynesiano della Ue non è possibile, perché è vietata dai trattati: servirebbe l’unanimità e i tedeschi e altri Paesi dicono di no da trent’anni. Rassegnamoci all’idea che l’Unione è irriformabile, se non in senso peggiorativo.

Ma gli Stati europei divisi potrebbero competere sul mercato globale con le grandi potenze?
Ditelo al Giappone, alla Corea del Sud e a decine di altri Stati singoli, che non hanno certamente dimensioni o popolazione su scala continentale. La storia e i dati economici ci dimostrano che non serve un grande pennello per dipingere una grande parete. Anzi, uno Stato piccolo spesso ha possibilità di manovra più pratiche e facili rispetto a un agglomerato più grande, come una barca piccola in un mare in tempesta.

Questo assunto varrebbe anche per l’Italia? Se uscissimo dall’Unione europea l’economia italiana se ne gioverebbe?
Dipende: l’uscita dalla Ue è la condizione necessaria ma non sufficiente. L’Italia avrebbe necessità di intraprendere un percorso economico, politico e industriale, che la riporti ai vertici dell’economia mondiale: oggi siamo la nona potenza, ma avevamo raggiunto anche il quarto posto negli anni ’90. Potremmo aspirare a scalare posizioni.

E cosa ci servirebbe?
Investimenti, infrastrutture, politiche industriali: cioè riappropriarci della leva fiscale, una banca centrale al servizio del Tesoro e della sovranità monetaria, poter fare un bilancio in deficit senza che l’Europa ci dica di tagliare la spesa pubblica. Ma in linea teorica un Paese può riappropriarsi di tutte le leve e le sovranità che vuole, eppure continuare ad applicare le stesse politiche che adottava nell’Unione europea: come sta facendo il Regno Unito. Così facendo si continuerebbe a non crescere, anzi a decrescere.

Realisticamente, nel medio periodo, si possono creare le condizioni per una dissoluzione dell’Unione europea?
A oggi mi sembra più probabile che mai. Le condizioni in parte già ci sono, ma purtroppo mi sembra che vadano nella direzione di una disgregazione per shock esterni, come la guerra in Ucraina: cioè di più difficile controllo e potenzialmente più pericolosa sul fronte sociale ed economico. Sarebbe molto diverso dalla prospettiva che gli Stati membri si siedano a un tavolo e trovino un sistema per uscirne.

Dopo il periodo del Covid, sembra che la Ue sia intenzionata a tornare alle politiche di austerity.
Esatto. Il nuovo Patto di stabilità e crescita impone gli stessi obblighi del vecchio, ma con un taglio alla spesa pubblica più contenuto. Il precedente era così forte che nella realtà non è mai stato applicato da nessuno: adesso, invece, la pretesa che sia seguito alla lettera sarà maggiore. Per assurdo sarà ancora più pericoloso.

E funzionerà?
I dati economici decennali ormai ce lo dimostrano: hanno chiamato questo accordo di austerità Patto di stabilità e crescita, quando in effetti ha prodotto instabilità e decrescita, cioè l’esatto contrario del nome che porta. Invece, tutte le economie che crescono di più al mondo, nessuna esclusa, lo fanno con politiche fortemente interventiste e protezionistiche: esattamente ciò che vietano i trattati europei.

Pensa che ci sia la possibilità di una nomina di Mario Draghi a prossimo presidente della Commissione europea?
È possibile, ma mi sembra tanto come la Sora Camilla del proverbio romanesco: «Tutti la vogliono e nessuno se la piglia». Mi sembra che sia molto bravo nelle autocandidature, ma non altrettanto nell’ottenere il risultato che vuole: penso ai suoi fallimenti nella nomina alla presidenza della Nato o della Repubblica italiana.

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