Opinioni
Roberto Vivaldelli: «Così le big tech controllano la politica Usa»
Il giornalista Roberto Vivaldelli presenta al DiariodelWeb.it il suo ultimo libro «Big tech», edito da GiubileiRegnani, sullo strapotere delle multinazionali di Internet
Hanno un bilancio superiore al Pil di molti Stati e oggi persino la loro influenza politica inizia a superare quella delle nazioni principali. Stiamo parlando delle «Big tech», i colossi del web, da Facebook ad Amazon, da Google ad Apple, di cui il giornalista Roberto Vivaldelli si occupa nel suo ultimo omonimo libro, edito da GiubileiRegnani, dall’eloquente sottotitolo «Sfida alla democrazia». Un testo, quello che presenta in questa intervista ai microfoni del DiariodelWeb.it, che traccia lo scenario dello strapotere tecnologico, economico, informativo di una manciata di multinazionali private, che non si accontentano più di guadagnare miliardi di dollari ma sono arrivati al punto di condizionare perfino le elezioni. Anche la prossima campagna negli Stati Uniti.
Roberto Vivaldelli, in che senso le big tech pongono una «sfida alla democrazia»?
Prima di tutto perché sono diventate di gran lunga le aziende private più ricche e influenti della nostra epoca, anche per i loro rapporti con il potere. Nel libro spiego la vastissima attività di lobbying che portano avanti negli Stati Uniti: negli ultimi dieci anni hanno superato anche le corporazioni del petrolio e del tabacco e ora sono quelle che più investono per influenzare le scelte politiche. Facebook e Amazon sono i due lobbysti principali.
Parliamo di investimenti legali, immagino.
Certo. Negli Usa le lobby sono rigorosamente regolamentate. Però è chiaro che, se un’azienda privata esercita una pressione di questo tipo, è perché intende ottenere dei trattamenti di favore. Hanno finanziato la campagna elettorale di Biden ma anche quelle dei repubblicani. E poi abbiamo politici importanti che investono in azioni.
Quindi hanno anche degli interessi economici diretti?
Esatto. Io racconto il caso della famiglia di Nancy Pelosi, famosa ex speaker democratica della Camera, il cui marito fa affari d’oro con big tech. Quando hai una classe politica che non solo riceve pressioni legittime, ma trae anche guadagni da queste aziende, allora è ovvio che il loro strapotere assume una proporzione preoccupante.
Anche perché queste aziende private gestiscono spazi pubblici, all’insegna del più totale arbitrio: decidono che cosa è notizia, che cosa è bufala, che cosa si può dire e non si può dire, anche da parte di un presidente degli Stati Uniti.
Questo è il cuore del libro. I social sono diventate le nostre piazze virtuali: lì si tengono le campagne elettorali, si confrontano i candidati, si fa informazione. Come può essere una piattaforma privata a decidere chi abbia o meno diritto di parola? Le faccio un esempio.
Prego.
In questi giorni l’attore Russell Brand è stato accusato di molestie sessuali, ma è innocente fino a prova contraria. Il parlamento inglese ha spedito una lettera alla piattaforma Rumble, invitandola a chiudere il suo canale. Mi sembra un episodio gravissimo. La risposta è stata in controtendenza, perché Rumble ha difeso la libertà d’espressione e si è detta contraria alla censura. Ma questo non è il solo caso.
Me ne citi un altro.
Lo scoop del New York Post, antico giornale conservatore statunitense, sugli affari all’estero di Hunter Biden, figlio dell’attuale presidente Joe. Prima che la acquisisse Elon Musk, Twitter, sotto la precedente governance, prima delle ultime elezioni presidenziali, censurò questa notizia, suffragata da documenti, di sua iniziativa. Solo qualche mese più tardi l’ex Ceo Jack Dorsey ammise l’errore.
Il problema sta proprio nel metodo.
Chi ha dato l’autorità a una piattaforma di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso. Qualcosa decisamente non ha funzionato. Infine c’è il caso gravissimo della piattaforma Parler, sorta nel 2020 e molto seguita dai trumpiani. Attraverso un’azione combinata senza precedenti le big tech le tagliarono le gambe: Apple impedì di scaricare l’app, Amazon bloccò i server, Google la escluse dai motori di ricerca. Di fatto impedirono a un concorrente di affacciarsi sul mercato.
Ma allora dobbiamo rassegnarci al fatto che comandano loro o la democrazia può mettere in campo degli anticorpi per affrontare questa sfida?
L’unico antidoto allo strapotere di queste aziende è il ritorno dello Stato, innanzitutto per tutelare i diritti costituzionali e poi per intervenire sugli eccessi. E poi ci sono gli imprenditori illuminati: Musk è stato molto contestato, ma apprezzo quantomeno il fatto che abbia garantito il principio della libertà d’espressione.
A proposito di Stati Uniti, come si presenta Joe Biden alla nuova campagna elettorale che si sta avvicinando, anche alla luce delle problematiche famigliari del figlio Hunter?
Piuttosto malconcio. Salvo il primissimo periodo, lui non ha mai sfondato, ma ultimamente il consenso rilevato dai sondaggi è di meno della metà degli elettori. Se concludesse un secondo mandato arriverebbe a 87 anni. Persino i democratici credono che la sua età avanzata e la sua forma fisica e mentale acciaccata rappresentino un vero problema. Ogni volta in cui parla in pubblico, il suo staff trema, temendo l’ennesima gaffe.
Magari che stringa la mano all’uomo invisibile.
Con Trump se la gioca, questo è lo scenario più probabile, anche se moltissimi americani preferirebbero un terzo candidato.
Ma cosa possiamo dire sull’incapacità di rinnovamento della classe politica americana?
Questo è l’aspetto che maggiormente sfiducia, fiacca e preoccupa gli elettori. Lo scontro è molto polarizzato, perché Trump è molto divisivo. I democratici non hanno un’alternativa seria e concreta a Biden: d’altra parte la vicepresidente Kamala Harris è ancora meno popolare di lui…
E i repubblicani?
Dimostrano di essere fedeli al carisma trascinante di Trump, che riesce addirittura a sfruttare a suo favore le incriminazioni e la foto segnaletica. L’unico che avrebbe potuto impensierirlo era DeSantis, ma si è trovato in grande difficoltà: ha dovuto cambiare gran parte del suo staff e resta a oltre trenta punti percentuali dall’ex presidente. A meno che Trump non si possa candidare per qualche motivo, il preferito rimane lui.
Che ruolo giocherà in questa campagna elettorale la guerra, tenuto conto che persino l’America iper-bellicista oggi sembra rimettere in discussione la sua partecipazione senza scadenza in Ucraina?
La visita di Zelensky non è andata bene. Nei repubblicani cresce la convinzione che non si possa dare armi all’Ucraina all’infinito, spendendo un sacco di soldi: finora sono stati impegnati 75 miliardi in assistenza militare e umanitaria e ne volevano sul piatto anche 24. Oltretutto si rischia un’escalation con la Russia. Ma anche tra i democratici cominciano a calare i consensi, che prima erano alle stelle.
La situazione è molto complicata, insomma.
Anche sul campo: la controffensiva procede molto a rilento, al di sotto delle aspettative. Biden ci ha investito molto e si troverà in grande difficoltà a spiegare agli americani di aver speso molto senza ottenere risultati. Secondo gli analisti militari, gli ucraini hanno ancora una trentina di giorni per portare a casa qualche successo: poi arriverà l’inverno e dovrà difendere le sue posizioni, tenuto conto che le perdite sul suo fronte sono state devastanti.
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