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Calcio

Juventus, l’entusiasmo dell’oggi e l’oblio del ieri

La Juventus vince, ma non basta una fiammata per cancellare mesi di lavoro. Difesa del progetto paziente, critica alla narrazione che esalta il nuovo dimenticando il passato.

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Kenan Yıldız
Kenan Yıldız (© Juventus)

Con il massimo rispetto per Baschirotto e per quel Lecce che, col coraggio di chi non ha nulla da perdere, ha rischiato di prendersi tutto, è curioso osservare come una partita possa riscrivere la storia recente di una squadra. Una vittoria, un paio di giocate riuscite, un allenatore nuovo che sorride: tutto sembra cambiato, anzi, tutto sembra cominciato solo adesso. Come se nulla fosse accaduto prima. Come se otto mesi fossero passati invano.

Eppure, il calcio non è uno sport per smemorati.

Tre partite, un’illusione. Otto mesi, un progetto

C’è chi oggi scrive che il progetto Juve sia nato sabato scorso. Che servivano tre partite e venti allenamenti per fare quello che altri non hanno saputo costruire in tre stagioni, figuriamoci in tre trimestri. Ma se il calcio fosse solo una questione di tempo, avremmo bisogno di orologi, non di allenatori.

In realtà, ciò che oggi brilla è il frutto – lo si voglia ammettere o meno – di un lungo lavoro sommerso, logorante, silenzioso, in cui si è provato a restituire ordine a una società che veniva da un decennio di vittorie ma anche di confusione. Un lavoro che ha richiesto coraggio nel dire “no”, nel togliere il superfluo, nel tenere i giocatori al proprio posto non solo in campo, ma anche nella testa.

La squadra di ieri è la stessa di oggi. Cambia solo la narrazione

Oggi scopriamo che Vlahovic sa fare gli assist. Che Locatelli è un regista mobile, che Yildiz è un talento vero. Tutto in un attimo, come se quei nomi fossero piovuti dal cielo insieme all’allenatore nuovo. Ma no: erano gli stessi nomi, gli stessi uomini, gli stessi limiti e le stesse potenzialità.

Cosa è cambiato allora? È cambiata la narrazione. Oggi si esalta la verticalità, ieri si criticava la prudenza. Oggi si chiama “semplicità”, ieri la si chiamava “povertà di idee”. Ma il campo, se lo si guarda con attenzione, racconta una storia diversa: questa Juve ha messo in moto automatismi che non si creano in venti allenamenti. La lucidità dei movimenti, la compattezza tra i reparti, il pressing organizzato: questo non si improvvisa. Si eredita.

Saper costruire vuol dire avere pazienza

Si dice che il calcio non sia una scienza. Vero. Ma neppure un cabaret, dove tutto si risolve in un colpo di scena. Chi chiede tre anni, non lo fa per perdere tempo, ma per costruire cultura calcistica, per trasmettere un’identità, per lasciare in eredità qualcosa di più di un risultato occasionale. Chi invece arriva, vince e viene osannato, dovrebbe avere l’umiltà di sapere che cammina su un terreno che altri hanno dissodato.

Il calcio italiano non ha bisogno di nuovi eroi effimeri, ma di progetti che resistano al vento del primo entusiasmo. Di tecnici che pensino la squadra non solo per domani, ma anche per dopodomani. Che sappiano sopportare la critica feroce, il dubbio, il risultato che non arriva. Che insegnino, nel silenzio, il valore della coerenza.

Il futuro non si compra in tre partite

Non esaltiamoci troppo in fretta. Non demoliamo ciò che faticosamente è stato costruito. Una squadra non è una macchina da scrivere su cui cambiare nastro e ricominciare a battere. È un’opera collettiva, faticosa, che richiede tempo, errori, fallimenti.

Chi oggi raccoglie gli applausi lo merita. Ma chi ieri ha tenuto in piedi il palcoscenico merita, almeno, un inchino.

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