Economia & Lavoro
Automobili straniere: l’America non è un mercato. È il mercato
I colossi stranieri dell’auto dipendono dal mercato USA. Un’analisi svela come le vendite americane siano cruciali per BMW, Toyota e Hyundai, tra economia e geopolitica globale.

Chi ancora si illude che l’epoca dell’egemonia statunitense sia tramontata farebbe bene a guardare dove vanno a finire le automobili tedesche, giapponesi, coreane. E anche cinesi. Perché il mito del “mercato globale” resta, appunto, un mito quando si scopre che le sorti dei più grandi costruttori d’auto stranieri dipendono dalle vendite fatte a stelle e strisce. Il mercato americano è il cordone ombelicale dell’industria automobilistica mondiale.
Toyota, ad esempio, che molti considerano la regina dell’efficienza orientale, deve il 22% delle sue vendite globali agli Stati Uniti. Numeri simili, se non più inquietanti, riguardano BMW e Volkswagen, per cui il consumatore americano non è solo cliente, ma mecenate. Quando in Texas o in Michigan qualcuno decide di cambiare SUV, a Stoccarda si stappa lo spumante.
Il paradosso del dominio: chi comanda davvero?
E qui arriva il paradosso che avrebbe fatto sorridere persino Charles de Gaulle: l’Europa che predica autonomia strategica, ma dipende da Detroit. La BMW vende circa 31% delle sue auto sul suolo americano, eppure a Bruxelles ci si scalda parlando di “sovranità industriale”. È come voler parlare d’amore con il portafogli vuoto.
Hyundai? La Corea del Sud è un paese efficiente, ma l’11% delle sue vendite globali avviene in USA. E i cinesi? Con buona pace di chi teme l’invasione di auto elettriche del Dragone, BYD (il colosso EV di Pechino) ha uno 0,01% del mercato USA. Il che fa capire che, quando Washington decide di alzare una tariffa, il boato si sente fino a Monaco di Baviera, ma a Shenzhen al massimo si alza un sopracciglio.
La geopolitica parcheggiata in garage
Il problema, però, non è solo economico. È geopolitico. Perché dipendere dal mercato americano significa anche dipendere dall’umore di Washington. Un dazio doganale, un tweet di un presidente un po’ troppo incline al protezionismo, e interi piani industriali europei vanno in tilt. Le aziende tedesche sanno bene cosa significa quando si parla di “America First”.
E allora ci si chiede: ma questa Europa, così attenta al green deal e alla transizione ecologica, ha un piano B se il mercato americano chiude il rubinetto? Perché finché si vende bene a Los Angeles, si può anche fingere che le tensioni commerciali non esistano. Ma quando il SUV tedesco smette di piacere all’americano medio, l’economia dell’intera Baviera trema.
La sovranità si misura in concessionaria
Ecco la verità nuda e cruda: non esiste indipendenza economica senza indipendenza commerciale. E oggi le sorti di Volkswagen e Renault si decidono più a Chicago che a Bruxelles. Il Vecchio Continente, che ama farsi chiamare “partner”, è in realtà un fornitore privilegiato. Finché dura.
E se un giorno l’America dovesse decidere di cambiare fornitore?
Beh, allora toccherà ai manager europei imparare il significato della parola “autarchia”. Ma non quella di Mussolini: quella vera, dura, industriale. Quella in cui o vendi in casa, o non vendi affatto.
Continua a leggere le notizie di DiariodelWeb.it e segui la nostra pagina Facebook

Kadmo Giorgio Pagano
13 Aprile 2025 at 12:39
Tutti i presupposti di questo articolo sono concentrati sulle vendite e non la tecnologia che serve per farle le auto.
Il che dipende dalla politica. “Basterebbe” riprendere i negoziati per l’ entrata della Russia in Europa e ciò scombussolerebbe tutto. Finora gli USA hanno potuto contare sulla non volontà di competitività dell’Europa rispetto agli USA! A questo debbono la loro ricchezza sulle spalle di una UE impegnata sulla compativitá interna e non esterna.