Economia & Lavoro
La crisi della manodopera “qualificata” è il vero nemico del made in USA
La vera sfida economica non è la tecnologia, ma la mancanza di manodopera qualificata. Serve una rinascita industriale che parta dal lavoro e dalle competenze, non dalle illusioni globaliste.

Si è giocato a lungo col giocattolo rotto del globalismo, facendo finta che non cigolasse. Per decenni si è esportata la produzione, si sono delocalizzati i cervelli e si sono importati beni costruiti da altri popoli, più affamati e meno sindacalizzati, per tener buoni quelli di casa. Si è venduta al mondo l’idea che la ricchezza potesse moltiplicarsi senza passare dal sudore. Oggi ci si sveglia tra gli scaffali vuoti delle competenze, con le fabbriche che aspettano ma gli operai che non arrivano.
Qualcuno, però, ha osato dire che l’imperatore è nudo. E ha indicato il colpevole con il dito, ma senza specchiarsi troppo nel vetro della propria finestra. È il sistema stesso a essere guasto, e occorre metterci mano. Non con le carezze dei convegni o le dichiarazioni per la stampa, ma con i calli di chi torna nei luoghi dove si fa, si costruisce, si pensa col corpo prima ancora che con la mente.
Un piano per rimettere ordine
L’uomo tanto deriso, accusato d’essere un autocrate in giacca e cravatta, ha messo sul tavolo una strategia di ricostruzione. Una di quelle che non fanno innamorare l’editorialista, ma fanno tremare il direttore di stabilimento: riportare in patria le fabbriche, rivestire d’orgoglio il lavoro manuale, ridare centralità alla manodopera qualificata, che è diventata più rara dell’oro, e non meno preziosa.
È un programma di ritorno alla realtà, che paga il prezzo della complessità e non promette scorciatoie. I dazi, tanto odiati in Europa, sono solo una parte dello strumento: il vero obiettivo non è punire il concorrente, ma ricostruire la catena spezzata della produzione nazionale, che oggi ha bisogno più di falegnami e tecnici che di banchieri.
Una marcia lunga, ma inevitabile
Chi crede che basti firmare un decreto per veder riempite le fabbriche, non conosce il mestiere dell’uomo. Serviranno anni, forse decenni. Ma non si può restare immobili solo perché il sentiero è in salita. L’alternativa è rassegnarsi a essere periferia della produzione altrui, servi sofisticati di un’economia che non ci appartiene più.
In questa lotta c’è chi strilla alla regressione, chi evoca i fantasmi del protezionismo, chi urla allo scandalo delle barriere. Ma non dice mai dove porti la strada opposta, quella dell’apertura senza misura, della dipendenza totale dai centri asiatici del sapere e del fare. La libertà non è solo quella di commerciare. È anche quella di produrre. Di scegliere dove e con chi costruire il proprio domani.
Una nuova frontiera del lavoro
Il problema non è solo occupare le posizioni, ma ricreare una cultura del lavoro che non si vergogni di sporcarsi le mani. Il mondo non ha bisogno di altri opinionisti da tastiera, ma di persone capaci di rifinire una vite, progettare un microchip, montare un impianto con passione e precisione. Senza queste figure, nessuna nazione può definirsi indipendente.
Non si tratta di chiudere le frontiere, ma di governarle con lucidità. Di accogliere non chiunque, ma chi è disposto a far parte di un progetto più grande, che premi il merito e la formazione. Di smettere di fingere che tutto sia intercambiabile, che chiunque possa fare qualunque cosa.
Il ritorno dell’orgoglio industriale
La sfida lanciata è una sfida che impone un mutamento culturale prima ancora che economico. E non si vince solo con i piani industriali. Serve una pedagogia nazionale del lavoro, che torni a raccontare il valore della competenza, il rispetto per la fatica, la nobiltà dell’artigianato evoluto.
Non sarà un ritorno romantico al passato, ma una ricostruzione faticosa del futuro. Un futuro che non si costruisce senza uomini. E se oggi mancano, non è detto che debba essere così domani. Ma bisogna cominciare, senza più farsi illusioni.
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