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Economia & Lavoro

Petrolio, nessun cambiamento in sede Opec

I paesi esportatori di greggio hanno esteso i tagli attuali alla produzione a tutto il 2024, mentre l’Arabia Saudita proseguirà autonomamente l’estrazione di 500.000 barili in meno al giorno. Il punto sulle considerazioni finali di Ignazio Visco

Carlo Vedani

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Barili di petrolio con le bandere dei paesi OPEC
Barili di petrolio con le bandere dei paesi OPEC (© Depositphotos)

L’ok definitivo del Congresso americano all’innalzamento al tetto del debito ha dato respiro ai mercati, che la scorsa settimana erano partiti con una flessione e hanno poi chiuso in crescita.

La dinamica dei listini, però, non dipende solo dalle notizie giunte da Washington – dato che il compromesso era già stato raggiunto e comunque scontato – ma anche dalla dinamica che da tre mesi guida i mercati: quando la settimana parte male, chiude bene, e viceversa. Un ping pong che, come accade al gioco dell’oca, riporta le pedine alla situazione di partenza. La scorsa settimana, se si escludono l’ottima performance dell’intelligenza artificiale e il rafforzamento del settore bancario (ma sempre in un andamento di piccolo cabotaggio), le Borse non hanno abbandonato la loro ormai consueta posizione di attesa.

L’Arabia va da sola

Qualche novità giunge invece sul fronte petrolio, che nell’ultima riunione dell’Opec+ ha visto l’Arabia Saudita isolata sulla proposta di ulteriori riduzioni.

L’organizzazione dei paesi esportatori di greggio ha mantenuto lo status quo, estendendo i tagli attuali a tutto il 2024 e stabilendo a 40,46 milioni di barili al giorno il target per l’anno prossimo. Riad, da parte sua, ha invece deciso di proseguire una politica autonoma, confermando il taglio di 500.000 barili al giorno.

La divergenza (che, assicurano in sede Opec, è stata comunque soft) non ha avuto troppe conseguenze: pur cresciuto, il prezzo del petrolio è rimasto sotto gli 80 dollari al barile, nella comfort zone in cui risiede da un po’ di tempo.

Ad abbandonare, invece, le quotazioni degli ultimi tempi è stato l’euro, che è sceso rispetto al dollaro. Si tratta però di una normale fluttuazione, che lo mantiene in fascia neutrale.

Stretta monetaria, la (larvata) critica di Visco

L’opinione pubblica italiana ha, invece, seguito con molta attenzione le consuete considerazioni finali del governatore di Bankitalia, pronunciate da un Ignazio Visco giunto all’ultimo mandato.

Attenzione particolare sull’inflazione, il cui ritorno su livelli più bassi “sarà più rapido e meno costoso se tutti – imprese, lavoratori e governi – contribuiranno a questo fine, rafforzando l’efficacia dell’indispensabile ancorché equilibrata normalizzazione monetaria. Le strategie di prezzo delle imprese giocheranno un ruolo fondamentale”.

Si rivelerà importante, ha proseguito Visco, “tenere dritta la barra della risposta monetaria, ma con la gradualità necessaria per l’incertezza ancora non dissipata”.

Una larvata critica, quella del governatore, alla velocità con cui la Bce ha alzato i tassi. Pur molto moderato e istituzionale, il messaggio è chiaro: occorre evitare salti nel buio, come più esplicitamente aveva ricordato, lo scorso febbraio, Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo Bce.

Stiamo attendendo la recessione più prevista della storia. Ce lo dicono i dati economici, anche se la Banca Centrale Europea sembra voler proseguire nella politica di inasprimento. Mostrandosi più radicale rispetto alla Fed, dubbiosa sulla prosecuzione della stretta.

Tassazione, la progressività è imprescindibile

Visco è intervenuto anche sulla riforma del fisco, ritenendo “necessario” agire per “superare gli ostacoli e i disincentivi alla crescita dimensionale ancora presenti, spesso impliciti nelle norme amministrative e tributarie”, ma senza “prescindere dai vincoli posti dal nostro elevato debito pubblico, né dai principi di progressività e capacità contributiva sanciti dalla Costituzione”.

Qualcuno, in queste parole, ha visto uno scetticismo nei confronti dei sistemi di tassazione ad aliquota fissa, che periodicamente si presentano nel dibattito politico italiano, ma che nella loro versione più ortodossa appaiono inattuabili.

Mentre sembra più fattibile la versione light della flat tax, quella che consentirebbe alle partite iva con fatturato fino a 80.000 euro lordi una tassazione “piatta”. Si tratterebbe di una perequazione con il lavoro dipendente: i professionisti non hanno ferie pagate, malattia, né un datore di lavoro che paga loro i contributi. Questo intervento consentirebbe proprio di equilibrare queste differenze. Senza intaccare i principi di “progressività e capacità contributiva” sottolineati dal governatore.

Crescita sopra le attese

Tra i protagonisti delle considerazioni finali anche l’economia, la cui crescita, nel primo trimestre 2023, “ha di nuovo superato le attese”, con una previsione attuale di oltre l’1% a fine anno.

La situazione evidenziata dal governatore ispira ottimismo anche in caso di recessione, dato che il prodotto interno lordo italiano continua a mostrarsi superiore a quello di Germania e Francia. Anche per la capacità di reazione dimostrata di fronte a pandemia e guerra russo-ucraina, con annessa crisi energetica. Le ristrettezze economiche in cui da tempo versa l’Italia, hanno fatto sì che le aziende che sono riuscite a sopravvivere, nonostante l’atavica burocrazia che frena il paese, abbiano sviluppato una sorta di sistema immunitario. E siano più sane e forti rispetto a imprese abituate a procedere su rassicuranti rettilinei, meno avvezze a difficoltà.

Salario minimo

Il governatore si è anche dedicato ai troppi giovani (ma non solo) che “non hanno un’occupazione regolare o, pur avendola, non si vedono riconosciute condizioni contrattuali adeguate; come negli altri principali paesi europei, l’introduzione di un salario minimo, definito con il necessario equilibrio, può rispondere a non trascurabili esigenze di giustizia sociale”.

In molti casi, ha proseguito, “il lavoro a termine si associa a condizioni di precarietà molto prolungate: la quota di giovani che dopo cinque anni ancora si trova in condizioni di impiego a tempo determinato resta prossima al 20%”.

Il salario minimo caldeggiato da Visco è possibile da introdurre? E in che termini? Prima di affrontare il problema, occorre ricordare che, da questo discorso, occorre escludere la maggior parte dei dipendenti, che uno stipendio minimo ce l’ha già. Si tratta dei lavoratori coperti dai contratti collettivi nazionali, i cui livelli retributivi sono sicuramente superiori a un importo base stabilito per legge.

Il salario minimo, insomma, andrebbe a tutelare le fasce di popolazione più deboli, sottopagate. Quelle, per intenderci, che sono retribuite 5 euro all’ora o addirittura meno. Naturalmente, anche qui occorrono i dovuti distinguo: per esempio, prevedendo condizioni ad hoc per alcuni settori, come quello delle badanti, in cui la quantificazione oraria non è così immediata.

Insomma: prima o poi, al salario minimo ci si dovrà arrivare, come auspicato da Visco. Occorrerà però individuare il giusto percorso e le corrette applicazioni di questo istituto. E considerare anche l’altro tema – correlato e altrettanto importante – relativo al livello di retribuzione dei giovani, soprattutto negli stipendi di ingresso. Magari superiori a qualsiasi salario minimo venga identificato, ma comunque molto bassi.

Debito pubblico

Tra le altre cose, le considerazioni finali si sono concentrate anche sul debito pubblico. Ridurne la dimensione, ha detto Visco, “è una priorità della politica economica, indipendentemente dalle regole europee. Un alto debito impone che una quota elevata delle entrate pubbliche sia destinata al pagamento di interessi invece che a impieghi produttivi; pone seri problemi di equità tra le generazioni; rende più difficile l’adozione di misure anticicliche; genera incertezza per gli operatori economici”.

Considerazioni che non fanno una piega. Ma che, purtroppo, sono di difficile applicazione. Perché nella realtà, ridurre il debito è molto arduo, se non impossibile. Prendiamo l’Italia: negli ultimi 30 anni ha registrato un avanzo primario, ma ciò non ha impedito all’indebitamento di crescere. Prendiamo gli Stati Uniti, dove il debito è molto maggiore del nostro, e dove, nonostante questo, si è reso necessario un ampliamento del tetto, senza il quale il paese sarebbe andato in default.

Piuttosto, sarebbe più fattibile cercare di eliminare il debito “cattivo” e mantenere quello “buono”, cioè gli investimenti che poi creano lavoro, denaro ed espansione dell’economia.

A questo proposito, sarebbe importante ricalibrare gli obiettivi del Pnrr. Occorrerebbe, cioè, cambiare le politiche di investimento, dato che in poco tempo le priorità si sono trasformate in maniera radicale, ed evitare di spendere tutto il tesoretto entro il 2026. Perché, ricordiamolo, quasi tre quarti della somma disponibile è a debito: impiegarla tutta rischierebbe di creare problemi soprattutto a famiglie e aziende, che un giorno saranno chiamate a ripagare gli investimenti effettuati.

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