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Economia & Lavoro

Trump, quando il politico decide di fare il politico

Donald Trump sfida l’egemonia dei mercati finanziari per riaffermare la centralità della politica. Nonostante i crolli di Wall Street, rilancia la sua visione di sovranità economica e decisionale.

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Il Presidente americano, Donald Trump
Il Presidente americano, Donald Trump (© White House)

Nell’epoca dei mercati sovrani e dei banchieri centrali venerati come profeti, ogni deviazione dalla liturgia dell’equilibrio finanziario è vista come eresia. Ma Donald Trump, col suo stile impetuoso e iconoclasta, ha avuto l’ardire di riportare la politica nella stanza dei bottoni. Non la politica della mediazione, delle manine prudenti, dei compromessi a bassa voce. Ma la politica del potere, quella che osa imporre una direzione, anche a costo di far tremare i listini.

Non sono i crolli di borsa a dettare legge al popolo. Almeno, non nel disegno trumpiano. Perché dietro ogni tonfo azionario, dietro ogni fuga di capitali, lui legge un segnale di battaglia, non di resa. E in questo, piaccia o no, c’è una visione coerente e radicale: quella di un presidente che si ribella all’assunto che “Mr. Market” debba comandare più di Mr. President.

La Fed, la Cina e l’idea di sovranità

La tentazione di silurare Jerome Powell dalla presidenza della Federal Reserve non era uno scatto d’ira, ma l’esternazione brutale di un principio: le istituzioni economiche, per quanto indipendenti, non devono sottrarsi all’indirizzo politico democratico. Una bestemmia, forse, per il catechismo liberale. Ma anche una rivendicazione di sovranità popolare in campo monetario, che rimette in discussione l’egemonia dei tecnocrati.

E lo stesso vale per la guerra commerciale con la Cina: lungi dall’essere un capriccio improvvisato, essa si configura come una strategia di riposizionamento geopolitico, con il commercio usato come leva per riequilibrare rapporti di forza ritenuti iniqui. Che poi i mercati penalizzino Apple e premiino l’oro, è secondario. La posta in gioco è un mondo meno globalizzato, più nazionale, più controllato dai governi che dalle borse.

Il prezzo della disobbedienza

Trump ha pagato. Ha dovuto correggere il tiro, certo. Ha fatto retromarcia su Powell, ha abbassato i dazi, ha sorriso a Xi Jinping. Ma ogni passo indietro è stato rumoroso e teatrale, mai servile. Ha concesso, ma non si è arreso. Anzi, ha rilanciato, trasformando ogni sconfitta tattica in un episodio di una narrazione più ampia, dove il presidente combatte contro un nemico oscuro e onnipresente: l’élite finanziaria che tutto muove e nulla risponde.

Una lezione per chi governa col bilancino

Chi crede che la politica debba essere solo gestione, chi misura l’efficacia di un governo col termometro dello spread, dovrebbe riflettere. Trump, nel bene o nel male, ha rimesso al centro la volontà del potere politico, con tutti i rischi e le tempeste che ciò comporta. Ha trattato la finanza non come un oracolo, ma come un attore tra gli altri, forse anche un avversario. E lo ha fatto nonostante i titoli in rosso, nonostante la fuga dal dollaro, nonostante i fischi degli investitori.

Il coraggio di comandare

C’è chi dirà che si è trattato di avventurismo, di dilettantismo, di follia populista. Ma la verità è che Trump ha avuto il coraggio di esercitare il comando, in un tempo in cui governare significa soprattutto ubbidire ai numeri, ai mercati, agli algoritmi. Ha perso? Forse. Ma ha osato. E nell’epoca della politica anestetizzata, l’atto stesso di osare è già una forma di vittoria.

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