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Daniele Trabucco: «Delle inchieste si fa un uso politico, per screditare i rivali»

Il giurista Daniele Trabucco sul DiariodelWeb.it a 360 gradi sui casi caldi della giustizia: l’inchiesta Toti, il rientro di Chico Forti, la riforma Nordio e il premierato

Fabrizio Corgnati

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Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti (© Fotogramma)

I temi della giustizia stanno animando queste ultime settimane di campagna elettorale per le europee. Ad accendere la miccia è stato l’arresto del governatore della Liguria Giovanni Toti, coinvolto in un’inchiesta per corruzione, ma molte polemiche ha suscitato anche il rientro in Italia di Chico Forti, condannato per omicidio negli Stati Uniti, accolto al suo sbarco con un saluto dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni in persona. Come se non bastasse, anche le riforme proposte dal governo, dalla separazione delle carriere voluta dal ministro Nordio al premierato, si sono inserite poi in questo filone di aspre discussioni. Il DiariodelWeb.it ha raccolto in quest’intervista i commenti del giurista e professore di Diritto Daniele Trabucco.

Professor Daniele Trabucco, che opinione si è fatto del caso Toti? Ha ragione chi parla di «nuova Tangentopoli» o chi evoca la «giustizia a orologeria»?
Mi sembra che si parli di giustizia politicizzata, per delegittimarla, ogni volta in cui si indaga su un politico importante, indipendentemente dalla sua collocazione.

Non esistono magistrati politicizzati, secondo lei?
Non c’è dubbio che una frangia della magistratura abbia un’impostazione ideologica, come dimostra il correntismo, ma generalizzare sarebbe eccessivo. Conosco molti magistrati onesti, imparziali, seri e professionali, indipendentemente dal loro pensiero. E se anche fosse, esistono tre gradi di giudizio e gli eventuali ricorsi alla Corte europea dei diritti umani: sono tutti politicizzati?

Forse la politicizzazione non sta nelle inchieste in quanto tali, ma nell’uso strumentale e mediatico che se ne fa.
Questo sì. Se ne fa un uso politico per screditare e delegittimare gli avversari, a danno del principio costituzionale della presunzione d’innocenza. Con la complicità dei media: soprattutto quelli di sinistra, penso a quotidiani come Repubblica, che si ritengono detentori della famosa questione morale, di cui già parlava Berlinguer nel secolo scorso.

È il modo in cui vengono raccontate le inchieste che non funziona, dunque.
Manca una visione sinottica, d’insieme. Si prendono sempre gli elementi a carico dell’indagato, non si valuta il caso da una prospettiva omnicomprensiva.

Si presenta solo il punto di vista dell’accusa, in altre parole.
Esatto. I media sono la «longa manus» del pubblico ministero. Anche se ci scordiamo sempre che, in Procedura penale, si studia che il pm deve valutare non solo le prove a sostegno della sua tesi, ma anche gli eventuali elementi a discarico, a garanzia dell’indagato.

La riforma proposta dal ministro Nordio, con la separazione delle carriere di pm e giudici, andrebbe nella direzione di rafforzare questo ruolo di garanzia?
Personalmente sono favorevole. È una scelta costituzionalmente possibile, una valutazione politica che rientra nella piena e libera discrezionalità del parlamento. Ma bisogna vedere come verrà attuata, perché presenta alcune criticità: di per sé, chi ha lavorato nella magistratura inquirente e dovesse passare a quella giudicante, e viceversa, può portare un bagaglio di esperienza professionale, perché ha vissuto entrambi i ruoli.

Allora perché si vuole separare le due carriere?
Perché l’uso mediatico della magistratura porta spesso i pm a rincorrersi l’uno con l’altro, una concorrenza alla ricerca di visibilità. Allora viene spontaneo interrogarsi sull’opportunità che, un domani, possano entrare nella magistratura giudicante, se siano ancora credibili. Questo diventa un problema.

A proposito di narrazione mediatica dei casi giudiziari, non possiamo non parlare del caso Chico Forti e dell’accoglienza della premier Meloni al suo rientro in Italia.
In questo caso siamo di fronte a una verità processuale dalla quale non possiamo prescindere: al di là delle sue dichiarazioni, finché non subentrano eventuali nuove prove che possano portare a rivedere il giudizio, Forti rimane colpevole di omicidio. Per questo motivo la mossa della Meloni mi pare eccessiva e inopportuna, utilizzata strumentalmente per la campagna elettorale.

Come mai?
Perché ha avuto un clamore mediatico che, dal mio punto di vista, era funzionale a rimarcare due concetti. Primo, il buon rapporto della premier con gli Stati Uniti, che le ha permesso di ottenere l’estradizione. Secondo, lo smacco nei confronti del centrosinistra, che quando erano al governo non ci sono riusciti.

Del resto anche la parte politica avversa ha utilizzato strumentalmente la vicenda: molti commentatori che, all’epoca dei governi Conte, avevano applaudito l’ipotesi di un rimpatrio di Forti, ora la stigmatizzano.
Non si può imputare questa vicenda a una sola persona. Sicuramente Giorgia Meloni, prima di andare al governo, si è accreditata presso l’establishment americano, sia tra i democratici che tra i repubblicani, ma il percorso che lei ha portato a termine è stato preparato dai governi precedenti.

Intanto prosegue anche il progetto del premierato, su cui pare che l’esecutivo voglia andare fino in fondo.
Utilizzo le parole del filosofo Edmund Burke: «A pensare di cambiare un sistema con leggi e decreti, si corre il rischio di non andare nella direzione voluta dal legislatore». Ai suoi tempi la Rivoluzione francese voleva abbattere la monarchia assoluta, ghigliottinando il re Luigi XVI, ma quello che seguì fu il periodo del Terrore.

Perché cita queste parole?
Perché non credo che un sistema diventi più stabile ed efficiente con le riforme costituzionali, ma con una classe politica degna di questo nome, che esercita la politica come arte della regalità, non come machiavellismo del consenso fine a se stesso. Oggi ne vedo una generalmente mediocre, di basso profilo, con poche eccezioni, che usa la bandiera delle riforme costituzionali a fini esclusivamente elettorali.

Meglio mantenere il parlamentarismo?
Non voglio dire che la forma di governo parlamentare attuale funzioni alla perfezione, anzi. Ma la riforma del premierato non va nemmeno nella direzione auspicata da Fratelli d’Italia, che in campagna elettorale parlavano di presidenzialismo o semipresidenzialismo.

Qual è la differenza?
Il premierato è l’elezione a suffragio universale diretto per cinque anni del presidente del Consiglio dei ministri, contestualmente alle Camere. Ma il bicameralismo paritario e perfetto non verrebbe toccato. Da una parte si avvia un percorso di autonomia regionale differenziata, il disegno di legge Calderoli approvato in Senato, dall’altra si continua a mantenere le due Camere, in composizioni diverse, con le stesse identiche funzioni? Non ci si interroga sul ruolo della seconda Camera, magari rappresentativa delle autonomie territoriali?

Un po’ come prevedeva la riforma Renzi.
Infatti. Il fatto che la riforma non sia complessiva, non tocchi anche l’organo legislativo, mi lascia molto perplesso. E poi, che cosa cambierebbe? Il premier avrebbe potere di proposta dei ministri, ma gli atti finali di nomina rimarrebbero in capo al presidente della Repubblica, che quindi potrebbe continuare a esercitare la sua discrezionalità se venissero presentate figure non in linea con un determinato indirizzo, come accadde nel 2018 con il ministro Savona.

Le prerogative del capo dello Stato non verrebbero toccate.
Quella figura è stata definita da importanti costituzionalisti «l’organo più enigmatico» dell’ordinamento italiano. A seconda delle maggioranze più o meno forti o stabili, i suoi poteri si espandono o si restringono. Non lo considero solo un potere garante e neutro: da Scalfaro in poi, si è dimostrato che, sotto sotto, esercita un indirizzo politico determinante. Una forma di governo presidenziale vera, sul modello Usa, avrebbe fatto venir meno questa figura enigmatica, perché il capo dello Stato sarebbe stato anche capo del governo.

Quindi lei non crede a questa riforma?
No. E tra l’altro c’è un ulteriore grande problema: cosa succederebbe se il parlamento fosse di un colore politico diverso dal presidente, che deve comunque ottenere il voto di fiducia? Sul punto il silenzio è assoluto: la riforma costituzionale non dice nulla, affidandosi a una legge elettorale che al momento non c’è.

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