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Opinioni

Daniele Trabucco: «Tra l’intelligenza umana e quella artificiale c’è un abisso»

Al DiariodelWeb.it il giurista e costituzionalista Daniele Trabucco, che parlerà di intelligenza artificiale in un seminario online di Unidolomiti questo mercoledì

Fabrizio Corgnati

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Un'applicazione per l'intelligenza artificiale (© Fotogramma)

Più si inizia a sperimentare l’intelligenza artificiale, più avanzano le scoperte della tecnologia, più si pongono i relativi problemi filosofici e giuridici intorno a ChatGpt e ai suoi fratelli. Di queste questioni si occuperà, mercoledì 7 giugno dalle ore 21, un seminario organizzato online dall’università Unidolomiti e aperto non solo agli studenti e ai docenti, ma anche a tutti gli interessati. Il DiariodelWeb.it ne ha discusso con il relatore, il professor Daniele Trabucco, giurista e costituzionalista.

Professor Daniele Trabucco, di cosa parliamo quando parliamo di intelligenza artificiale?
Ci sono due interpretazioni. Quella forte sostiene che sia un’espressione della stessa intelligenza dell’uomo, perché entrambe svolgono operazioni computazionali, legate a una successione di passaggi.

E l’altra?
La versione debole, elaborata da alcuni filosofi del linguaggio come John Searle, vuole dimostrare che c’è una differenza sostanziale tra l’intelligenza umana e quella artificiale. Perché quest’ultima padroneggia le regole formali e grammaticali delle proposizioni, ma non sempre intende il significato profondo delle parole, il rapporto semantico.

L’intelligenza artificiale è in grado di costruire un discorso che fila, rielaborandone miliardi di altri, ma non è consapevole di quello che sta dicendo.
Esatto. Di conseguenza viene meno un aspetto tipico della nostra intelligenza, cioè l’intenzionalità.

A quale di queste due versioni lei aderisce?
A me pare che questa seconda interpretazione sia più convincente. Il cervello è solo riconducibile a un programma? Anche ammesso che sia vero, le sfumature della parola all’intelligenza artificiale sfuggono. Lo ha dimostrato un esperimento con i dialetti, in particolare sottoponendole espressioni tipicamente romanesche, che non è stata in grado di indagare.

Se è così, allora i timori di essere sostituiti dalle macchine lasciano il tempo che trovano.
Sono legati al fatto che questo settore è completamente nuovo. Stiamo riflettendo a livello filosofico, ma non ne conosciamo gli sviluppi futuri. A me pare che ci sia un abisso tra l’intelligenza umana e quella artificiale, ma un giorno si riuscirà ad attribuire alla macchina anche l’intenzionalità?

In quel caso sarebbe paragonabile all’uomo?
Anche con un eventuale esito del genere, credo che i due ambiti resterebbero distinti. Perché i criteri della programmazione vengono comunque stabiliti dall’attività umana, che dunque gode di un primato.

Se l’intelligenza artificiale ragiona sulla base di una quantità enorme di dati che vengono immessi, a immettere questi dati è comunque l’uomo.
Esatto. E quindi è l’uomo a stabilire come deve agire.

Dal punto di vista di un giurista come lei, quali problemi pone l’intelligenza artificiale, al di là di quelli avanzati inizialmente dal Garante della privacy che poi sembrano stati risolti?
Credo che il problema sia quello della responsabilità giuridica, dal punto di vista penale, civile, amministrativo, contabile. Se si verificasse un illecito contrattuale, un reato, un danno erariale, chi ne risponderebbe? L’intelligenza o chi le ha dato l’input? Il mondo del diritto dovrebbe interrogarsi.

E lei che risposta si è dato?
Per le ragioni che ho detto prima, non può che essere l’uomo. Anche perché come potremmo sanzionare l’intelligenza artificiale, che pena potrebbe subire? Metteremmo in galera il computer? C’è il rischio di un vuoto normativo.

Negli ultimi giorni abbiamo letto di un discorso in parlamento scritto dall’intelligenza artificiale, ma anche di un avvocato americano che ha affidato a ChatGpt la propria linea difensiva. Salvo che i precedenti legali che il computer ha citato erano completamente inventati. Che impressione le fa?
Noi stiamo iniettando nell’umano una realtà post-umana. Si vuole superare l’uomo andando oltre l’uomo stesso. L’uomo non è più una sostanza razionale e individuale, come ci hanno insegnato i filosofi antichi, ma diventa un mero ingranaggio di un sistema che deve funzionare. La vera ideologia transumanista è questa, non tanto l’impianto di un chip. Il rischio è un annichilimento della stessa umanità.

Il vero rischio non è tanto che le macchine prendano il posto dell’uomo, insomma, ma che l’uomo sia ridotto a semplice macchina.
Viene invertito il rapporto. Non è più la macchina a essere piegata alle esigenze dell’uomo, bensì l’uomo a mettersi al suo servizio. E questo è drammatico. Credo che sia una forma di delirio di onnipotenza, la riproposizione del peccato originale.

In che senso?
Il serpente dice a Eva, nel libro della Genesi, che mangiando il frutto dell’albero diventeranno dio, ma ovviamente questo è un inganno. Anche in questo caso l’uomo eleva l’intelligenza artificiale a grande divinità immortale, sperando in una salvezza, che in realtà non avviene. Perché la macchina non può togliere la dimensione di creatura, di finitezza dell’uomo.

Cambiamo decisamente argomento. Lei, da costituzionalista, che cosa può dire riguardo l’accelerazione del governo Meloni verso il premierato?
Finora si è parlato di etichette vuote. Dentro al concetto di premierato c’è un mondo, che può tradursi in diverse esperienze giuridiche. Parliamo di elezione a suffragio universale del presidente del Consiglio dei ministri, sul modello israeliano, o di rafforzamento dei poteri del premier sugli altri ministri, di cui può proporre la nomina ma anche la revoca? Oppure ancora, tutte e due le cose insieme?

Al momento la proposta non è chiara.
Anche perché manca ancora un disegno di legge su cui discutere. E le due Camere che ruolo avranno? Manterremo il bicameralismo perfetto? E come conciliare l’eventuale premierato con l’autonomia regionale differenziata? Sembra che i due percorsi siano paralleli, eppure le competenze delle articolazioni territoriali della Repubblica hanno un’influenza sulla forma di governo. Si vuole ragionale su una Camera rappresentativa delle autonomie territoriali? Verrà mantenuto il rapporto di fiducia tra governo e parlamento? E poi il ruolo del presidente della Repubblica, che negli ultimi anni non è più solo un potere neutro.

Facile lanciare il titolo, ma poi bisogna riempirlo di contenuti.
Aveva ragione il filosofo Edmund Burke quando metteva in guardia che riformando un Paese con leggi e decreti si rischi di non andare nella direzione pensata originariamente dal legislatore. Lui si riferiva alla Rivoluzione francese: si partì per limitare la monarchia costituzionale e si finì con la ghigliottina e il terrore. Lo dico non solo alla Meloni, ma Renzi nel 2016, Berlusconi nel 2006 e il centrosinistra con la riforma del Titolo quinto del 2001.

E quindi come se ne esce?
L’efficienza del sistema non dipende solo dalle riforme costituzionali, ma prima ancora dalla volontà degli uomini. Dal modo in cui concepiamo la gestione della cosa pubblica e ce ne assumiamo la responsabilità. Di cui le leggi sono soltanto un prodotto. Puoi fare tutte le riforme che vuoi, ma se non si pratica la virtù rimarranno parole al vento, prive di contenuto concreto.

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