Politica
Perché la sinistra italiana non può fare a meno del fascismo?
La sinistra italiana sembra dipendere dal fascismo per definirsi, utilizzandolo come “male assoluto” per legittimarsi. Ogni 25 aprile, rievoca questo fantasma, mostrando un’identità politica ridotta a custode di un passato immortale.
Ogni anno, come un orologio puntualissimo, il 25 aprile riporta alla ribalta il fantasma del fascismo, resuscitato per l’occasione da una sinistra italiana che sembra non saper fare a meno di questo nemico per definirsi e trovare un senso alla propria esistenza politica. Ma la domanda sorge spontanea: senza il fascismo, si sente forse nuda la sinistra italiana?
La recente polemica sollevata dal monologo di Antonio Scurati e la pressione esercitata su Giorgia Meloni affinché si dichiari antifascista ne sono un esempio lampante. Sembra quasi che, in assenza di un fascismo concreto da combattere, la sinistra cerchi di perpetuare la sua battaglia contro un fantasma, riducendo la propria identità politica a semplice sentinella di un passato che non vuole morire.
Il primo motivo di questa “fascio-dipendenza”, come osservato dal filosofo Augusto Del Noce, risiede nelle origini stesse della nostra Repubblica. Del Noce parlava di una visione “demonologica del fascismo”, considerato dalla sinistra il “male assoluto”, un cancro da estirpare senza possibilità di redenzione. Questa narrazione ha reso il fascismo un surrogato del diavolo, una presenza da cui liberarsi per affermare la propria moralità e legittimità.
Tra il 1943 e il 1945, la sinistra, in particolare il partito comunista, ha utilizzato l’opposizione al fascismo come veicolo per legittimare la propria scelta democratica nell’ambito della nuova Repubblica, seguendo la strategia di Gramsci e Togliatti. Nonostante le origini ideologicamente non democratiche, la lotta antifascista ha fornito una copertura di rispettabilità, oscurando le problematiche interne e permettendo alla sinistra di posizionarsi come difensore della democrazia repubblicana.
In occasione del 50mo anniversario del PCI, l’unità antifascista venne proclamata come un baluardo contro il ritorno del fascismo, ma questa retorica si è trasformata in uno strumento per etichettare come “fascisti” tutti coloro che si oppongono all’agenda della sinistra. La richiesta di una nuova adesione all’unità antifascista nel caso di Scurati e Meloni è solo l’ultimo esempio di questa strategia.
Tuttavia, è importante sottolineare che il fascismo, come fenomeno storico, è concluso nel 1945. La persistenza nel rievocarlo suggerisce che la sinistra lo consideri immortale, continuamente capace di rinascere in nuove forme, nonostante la realtà storica dimostri il contrario.
La costruzione del fascismo come “male puro” è diventata parte del quadro costituzionale della Repubblica, influenzando profondamente il modo in cui vengono condotte le celebrazioni del 25 aprile e ostracizzando chi propone un’interpretazione storica più matrice. La storiografia di Renzo De Felice e Giampaolo Pansa ha tentato di sfidare questa narrativa, ma con scarso successo nel cambiare la percezione collettiva.
Infine, nonostante il partito comunista abbia abbandonato formalmente l’idea di rivoluzione, la sinistra non ha rinunciato all’uso del fascismo come strumento retorico per combattere le proprie battaglie ideologiche. La trasfigurazione della rivoluzione in una lotta contro tutto ciò che è considerato “non progressista” ha portato persino a etichettare come fasciste figure contemporanee che esprimono posizioni conservatrici, come nel caso di Cora Boccia sulla questione dell’aborto.
In conclusione, la sinistra italiana sembra intrappolata in un loop storico-ideologico, incapace di rinnovarsi e di proporre una visione politica che vada oltre la lotta contro un nemico che, seppur storico, non ha più la presenza tangibile di un tempo. Questa ossessione rischia di relegare un intero schieramento politico a custode di memorie anziché protagonista di un futuro costruttivo.
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