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Sinner, Rossi, Tomba: quando lo sport italiano parla in dialetto, ma conquista il mondo

Tre icone, tre stili, una sola anima vincente: Sinner, Rossi e Tomba parlano di un’Italia che conquista il mondo senza urlare, ma con talento, lavoro e coraggio

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Secondo trionfo per Jannik Sinner agli Australian Open 2025
Secondo trionfo per Jannik Sinner agli Australian Open 2025 (© Agenzia Fotogramma)

Ogni volta che un italiano vince – e vince davvero, con stile, con talento, con fatica – ci ritroviamo a guardarlo con stupore, come se fosse una creatura mitologica. Eppure nascono tra noi, questi fuoriclasse, nei posti più improbabili: Tomba sulle nevi di Bologna, Rossi tra le colline marchigiane a giocare coi motorini, e oggi Sinner, dalle cime altoatesine, dove il tennis è più un’eccezione che una tradizione.

Ma è questo, forse, il segreto dell’italiano che ce la fa. Non viene dalle scuole d’élite, dai centri federali lucidi e asettici. Non è costruito. È forgiato, come il metallo in una fucina. È figlio del caso, ma anche della tenacia, del sacrificio, e di una forma tutta nostra di genialità provinciale.

Tre caratteri, una sola essenza

Tomba era l’arrogante buono, che scendeva dalle piste come se stesse ballando il valzer con una valanga. Rossi, il giullare letale, che usava l’ironia come arma per sconfiggere giganti. Sinner, il monaco moderno, che risponde con il silenzio e con i colpi. Tre caratteri diversissimi, eppure lo stesso istinto feroce per la vittoria. Quella che non si studia, non si allena, ma si ha nel sangue.

Ecco allora che il successo, per questi italiani, non è una rivincita. È l’inevitabile. Non cercano conferme: le impongono. Non domandano spazio: se lo prendono. Con i piedi, con le mani, con la testa. Con tutto il corpo.

L’Italia che vince, ma non si celebra

C’è qualcosa di profondamente ingiusto, quasi comico, nel modo in cui l’Italia accoglie i suoi eroi. Quando vincono, si grida al miracolo. Ma non li si capisce. Non li si accoglie, davvero. Restano estranei, quasi scomodi. Perché sono diversi da noi, o almeno da quella parte di noi che ha smesso di credere nel merito e nella fatica.
Sinner oggi, come Rossi ieri, come Tomba l’altro ieri, non rappresentano solo lo sport. Sono l’ultima bandiera di un’Italia che vuole ancora provarci. Che vuole vincere con stile, educazione, lavoro, senza urlare, senza fare drammi.

I nostri campioni parlano poco, ma dicono tutto

In un Paese che blatera, questi campioni stanno zitti e fanno. Non insegnano, non predicano, non si vendono. Offrono l’unica lezione che conti davvero: essere se stessi, anche quando il mondo ti chiede di essere altro. E se vinci, meglio. Ma non è quello il punto. Il punto è provare a essere il migliore, ogni giorno, senza alibi.

Lo sport, quando è arte

C’è un momento, nel gesto atletico, in cui lo sport diventa poesia fisica. Quando Tomba curvava al limite, quando Rossi infilava una staccata impossibile, quando Sinner incrocia un rovescio e sembra che la palla stia per decollare. In quel momento, l’Italia si riconosce, si emoziona, si riscatta.

E se questi tre hanno qualcosa in comune, è questo: non hanno mai chiesto di rappresentare nessuno. Ma lo hanno fatto comunque. Perché l’eccellenza è contagiosa, anche quando arriva da un campo in terra rossa, da una pista ghiacciata o da un circuito bollente.

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