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Sergio Rubini e il “Calvario hollywoodiano”
Sergio Rubini racconta con ironia la sua drammatica esperienza sul set de La Passione di Cristo di Mel Gibson, tra misticismo, freddo e follia, durante il Bif&st di Bari che lo premia alla carriera.

BARI – Che il cinema americano non fosse un affare per anime delicate già lo sapevamo, ma quando a testimoniarlo è Sergio Rubini, pugliese doc e artista tra i più versatili del panorama nazionale, vale la pena tendere l’orecchio. Invitato al Bif&st di Bari per ricevere un meritato premio alla carriera, l’attore e regista ha raccontato – con quel tono sarcastico e disincantato tipico del meridionale che osserva i fatti umani con sano distacco – la sua esperienza, tragicomica e indimenticabile, sul set de “La Passione di Cristo” del controverso Mel Gibson.
Quando Hollywood incontra Grumo Appula
Correva l’anno 2004, e Matera diventava Gerusalemme sotto gli occhi severi e un po’ invasati di Gibson, regista deciso a raccontare gli ultimi minuti della vita terrena di Gesù con un realismo al limite del sadismo. Rubini, scelto per impersonare il “ladrone buono”, nudo e martoriato sulla croce, scoprì ben presto che lavorare per Mel Gibson non era recitare, bensì immolarsi. L’attore pugliese rammenta, non senza un filo di amarezza ironica, l’assurdità di quelle giornate novembrine, fredde e impregnate di un fervore mistico che sfiorava il fanatismo.
Il racconto di Rubini è tanto gustoso quanto grottesco: un set che più che cinematografico pareva religioso, popolato da preti lefebvriani dall’abito rosso, solenni processioni di ostie consacrate, messe celebrate tre volte al giorno in latino, inglese e italiano. «Per entrare nel cerchio magico di Mel bisognava essere invitati ai suoi riti», rivela Rubini, che ricorda di aver visto più di una volta colleghi che, forse per suggestione o semplice sfinimento, sostenevano di aver ricevuto apparizioni notturne della Madonna. Perfino Giuda si convinse di ciò, mandando su tutte le furie Gibson, convinto di star girando non un film ma di compiere una missione divina.
Rubini e la “tecnica del sellino”
Sospeso sulla croce, Rubini doveva resistere ore per esigenze di “realismo anglosassone”. L’unico conforto era un sellino da bicicletta, invisibile alle telecamere, su cui si accomodava brevemente nei momenti di pausa. «Quando Gibson esclamava azione, con quella sua frusta in mano, bisognava tornare a soffrire». Tra sangue finto, fango autentico e freddo pungente, l’attore si convinse rapidamente che Mel Gibson fosse impazzito e che il film sarebbe stato un fiasco colossale. “Pensai addirittura che mi avesse scelto per punirmi”, confessa Rubini con il sorriso di chi ha capito che spesso la realtà supera le aspettative.
Ma il destino, che sa essere ironico, trasformò l’incubo di Rubini nel successo planetario della pellicola: 612 milioni di dollari incassati, tre nomination agli Oscar, e la bizzarra consolazione di ricevere un bonifico extra in una busta con l’effige di Gesù, soldi rifiutati inizialmente e poi accettati quando «si ruppe il cambio della Smart».
Dalla passione al disincanto
Oggi, mentre Gibson annuncia pomposamente il sequel del suo discusso capolavoro (The Resurrection of the Christ, sempre con Jim Caviezel a interpretare Gesù, questa volta in inglese e con effetti speciali per ringiovanirlo), Rubini preferisce conservare l’amore per il cinema nella sua dimensione più autentica e meno fanatica. «Le serie TV producono narcosi collettiva, sono animali domestici che ci disimpegnano; i film, invece, impegnano». Una fede cinematografica che rimane intatta, a dispetto di quell’esperienza che fu croce, senza alcuna delizia.
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