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Opinioni

Marianna Panico: «I pacifisti italiani firmino i nostri referendum contro la guerra»

Marianna Panico, del comitato Generazioni Future, racconta al DiariodelWeb.it gli ultimi giorni di raccolta firme e lo sciopero della fame di Davide Tutino

Fabrizio Corgnati

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Una manifestazione per la pace in Italia (© Fotogramma)

Sono gli ultimi giorni di raccolta firme per i referendum contro la guerra e a favore della sanità pubblica. Promossi da Resistenza radicale nel totale silenzio e disinteresse della grande stampa, nonostante il responsabile Davide Tutino si sia spinto a sottoporsi a uno sciopero della fame durato oltre un mese per scuoterne l’attenzione. Il DiariodelWeb.it ha interpellato Marianna Panico, responsabile territoriale per la Campania del comitato Generazioni Future del professor Ugo Mattei.

Marianna Panico, ci presenta la vostra iniziativa referendaria?
Il nostro comitato propone due istanze, portate in Cassazione il 3 marzo e per i quali abbiamo iniziato a raccogliere le firme il 22 aprile, per farne oggetto di un referendum abrogativo vero e proprio l’anno prossimo.

Di che referendum si tratta?
Uno è specifico contro l’invio delle armi all’Ucraina, l’altro in favore della sanità pubblica. Oltre al nostro comitato ne è nato un altro, presieduto dal professor Enzo Pennetta, che propone un altro quesito per abrogare la legge che, derogando la Costituzione, permette all’Italia di fornire armi ai Paesi belligeranti, in qualunque conflitto.

Da dove nasce la scelta di associare anche un referendum sulla sanità pubblica a quelli sulla guerra?
Il nesso è palese. Siccome la coperta è corta, il denaro pubblico speso per acquistare armi viene sottratto a un’altra voce di bilancio importante. Come quella della sanità, che è in forte sofferenza. Lo abbiamo visto dal 2020 a oggi: le liste d’attesa sono diventate improponibili, le patologie stanno crescendo.

Dunque il quesito sulla sanità a cosa mira?
A sviluppare una sanità pubblica, eliminando dalla pianificazione strategica del servizio sanitario nazionale la presenza dei privati. Introdotta negli anni ’90, con l’alibi della necessità dello Stato di acquisire un know how privato. Che però oggi è diventato conflitto d’interessi, perché il privato propone investimenti profittevoli per il proprio business, non sui medici di base.

Nessun partito italiano si è schierato con convinzione contro l’invio delle armi in Ucraina, eppure i sondaggi ci rivelano che la stragrande maggioranza della popolazione è contraria.
Voglio essere sincera: in due mesi di banchetti per strada ne ho incontrati di cittadini, la famosa opinione pubblica. A sentire i sondaggi ci saremmo aspettati l’invasione, le file chilometriche, invece abbiamo avuto grande difficoltà a raccogliere le firme.

Forse non ci si rende conto fino in fondo di cosa significhi davvero la guerra? Pensiamo che si tratti solo di un’immagine da vedere al telegiornale?
La guerra è oscena, è solo distruttiva: non si può pensare di risolvere i problemi geopolitici uccidendo esseri umani. Pensiamo di cominciare a dirimere le discordie su letti di cadaveri, sulle macerie? Che senso ha? Gli uomini e le donne di buona volontà sono naturalmente contrari alla guerra. Eppure molti cittadini sono favorevoli all’invio delle armi in Ucraina, magari perché la propaganda ha fatto un buon lavoro.

Molti sostengono che sia il modo per consentire a un popolo invaso di difendersi.
La narrazione è questa, non si va a un livello più alto, non si ragiona a livello globale. Allora invieremo le armi a qualunque Paese del mondo che abbia necessità di difendersi da qualunque invasore? Il ragionamento va posto su un piano politico e noi l’abbiamo fatto concretamente con questo referendum, perché i pacifisti si prendessero la responsabilità di quello che pensano e lo trasformassero in azioni. Chi è per la pace deve firmare.

Qual è quindi la soluzione politica che auspicate per il conflitto, dopo lo stop all’invio delle armi?
Innanzitutto tirare fuori l’Italia, in maniera democratica e popolare, da questo conflitto. Senza correre il rischio di un’escalation di guerra, che temiamo, ritrovandoci i nostri militari a solcare terre ucraine. All’inizio si parlava di una guerra lampo, che sarebbe durata due mesi, perché la Russia era al collasso, invece è passato più di un anno. Questo è un atto di responsabilità verso tutti i nostri cittadini, per preservare la nostra stessa vita. La scelta dell’invio delle armi non è stata una soluzione. Chi analizza se questa strategia è stata un successo o un insuccesso e se va cambiata?

Oltre alla politica, dovrebbe farlo l’informazione. Che però non sembra darvi molto spazio, tanto che Davide Tutino ha iniziato lo sciopero della fame.
Ci siamo chiesti per un mese cosa fare per dare uno shock a quest’informazione anestetizzata. Sia dal punto di vista dell’offerta, parziale e incompleta, che della capacità del cittadino di cercarsela. Noi siamo radicali di vecchia data, pannelliani, e l’unico strumento che abbiamo sono le azioni non violente.

Come sta Tutino dopo un mese di sciopero della fame?
Ha perso oltre dieci chili, su un corpo già provato, gracile e affaticato. Non si è fatto seguire da nessun medico proprio per non incorrere in un divieto a continuare a lavorare, perché da professore sta andando ancora a scuola e tenendo gli esami di maturità.

Ed è riuscito a risvegliare l’attenzione dell’informazione?
Non nel mainstream. Nessuna rete di servizio pubblico ha parlato del referendum.

Come sta andando la raccolta delle firme?
Al momento non abbiamo un consuntivo. Questi sono gli ultimi giorni di raccolta, poi ci saranno le certificazioni elettorali, compatibilmente con le tempistiche degli uffici dei vari Comuni, e la spedizione di tutte le firme al responsabile Davide Tutino. Abbiamo l’obiettivo di andare in Cassazione il 17 luglio, questa è la scadenza che ci siamo dati.

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