Opinioni
Pietro Paganini: «Così l’Europa vuole cambiare la nostra dieta»
Al DiariodelWeb.it l’appello dell’analista e divulgatore Pietro Paganini: «Stop alla dittatura alimentare imposta per ideologia e interessi commerciali»
I temi dell’agricoltura e dell’alimentazione stanno conquistando una posizione sempre più centrale nel dibattito della campagna elettorale per le prossime elezioni europee. Sugli indirizzi dell’industria alimentare, ma anche sulle scelte di che cosa i cittadini debbano mettere nei loro piatti, Bruxelles è intervenuta a gamba tesa in questi anni, tanto da sollevare non poche polemiche in particolare da parte del centrodestra, che sulla carne sintetica, sulla farina d’insetti e sul famigerato Nutriscore hanno riservato non poche levate di scudi. Al DiariodelWeb.it ne parla Pietro Paganini, analista e divulgatore economico e geopolitico, che a questi argomenti ha dedicato il suo libro «iFood. Come sottrarsi all’ideologia alimentare?», edito da Guerini.
Pietro Paganini, qual è la sua idea sulle politiche adottate dall’uscente governo Ue su queste questioni?
La Commissione europea ha affrontato la crisi climatica con buone intenzioni. Tuttavia l’approccio adottato si è rivelato carente, poiché è stato fortemente influenzato da ideologia ed emozioni, piuttosto che da un metodo sperimentale e analitico tipico del liberalismo. Questo ha portato a trascurare variabili importanti, come i fattori sociali ed economici, e a non prevedere le possibili conseguenze indesiderate delle decisioni prese.
A quali conseguenze si riferisce?
Quando la realtà ha imposto scenari imprevisti come la pandemia di Covid-19, le crisi delle catene di approvvigionamento e l’inflazione post-ripresa, le politiche adottate hanno mostrato le loro fragilità. Si sono generati compromessi che non hanno né affrontato efficacemente il problema climatico né rafforzato l’economia europea in modo da renderla più produttiva e competitiva.
Solo l’Europa ne ha risentito in questa misura, o anche altri Stati?
Negli Stati Uniti, ad esempio, l’accento è stato posto sulla «resilienza» dei processi produttivi, che implica un equilibrio tra tutte le variabili considerate. L’economia statunitense ha mostrato una maggiore capacità di adattamento alle sfide ambientali, mantenendo al contempo una crescita sostenibile. In Europa, invece, nonostante l’enfasi sulla «sostenibilità», abbiamo assistito a turbolenze significative che hanno compromesso sia l’economia che la coesione sociale.
Parliamo in particolare del Green Deal. La rotta che Bruxelles ha imboccato è davvero funzionale agli obiettivi della transizione ecologica o serve piuttosto un cambio di prospettiva?
È essenziale adottare una nuova prospettiva, come sottolineato nel documento strategico per l’agri-food presentato dal Centro Studi Competere. Questo documento invita i futuri parlamentari a riconfermare l’importanza del settore agricolo-alimentare, cercando un equilibrio tra gli obiettivi ambientali, economici e sociali. L’attuale ossessione per le questioni ambientali, se non adeguatamente bilanciata, rischia di ostacolare la transizione verso modelli di sviluppo sostenibili, impoverendo l’economia e promuovendo approcci meno efficaci e sostenibili.
Dietro alle posizioni che più hanno fatto discutere possiamo ravvisare un’autentica preoccupazione per la salute dei cittadini e la sostenibilità ambientale o piuttosto un interesse affaristico e lobbystico delle multinazionali?
Stiamo assistendo alla formazione di un’alleanza inedita tra interessi ideologici, legati al salutismo e all’ambientalismo, e interessi commerciali che si sviluppano attorno alle opportunità generate da questi movimenti. Non vi è nulla di intrinsecamente negativo in questo, purché i legislatori mantengano una visione comprensiva che consideri gli interessi più ampi dei cittadini e dei settori produttivi. In altre parole, mentre salutismo e ambientalismo possono stimolare l’ascesa di nuove imprese e prodotti, il loro successo dovrebbe essere determinato dal mercato e, quindi, dalle scelte dei consumatori.
Finora non è stato così?
Abbiamo osservato un’eccessiva influenza degli interessi commerciali di potenti gruppi finanziari che investono ingenti somme in ricerca e sviluppo, comunicazione e attività di lobbying. Molte di queste «nuove aziende» offrono soluzioni promettenti, ma per essere veramente innovative necessitano di dimostrare risultati concreti, spesso assenti.
Ad esempio?
Ad esempio, la carne in vitro rappresenta una sfida intrigante; non dovrebbe essere delegittimata, ma è essenziale che dimostri la sua validità attraverso fatti concreti, come prezzi accessibili e sicurezza per i consumatori, oltre che sostenibilità energetica ed economica. Inoltre, è importante riconoscere che non si tratta di carne nel senso tradizionale, ma di qualcosa di diverso. La sua accettazione dovrebbe essere lasciata al giudizio del mercato, entro un quadro normativo che protegga i consumatori e promuova politiche industriali a sostegno del lavoro, della produzione, dell’innovazione e della resilienza.
Anche il cibo è diventato un terreno di battaglia ideologico?
L’approccio ideologico e politico, o addirittura geopolitico, è un terreno su cui la Francia, per esempio, eccelle, come dimostrano il caso del Nutriscore e la cosiddetta guerra «ideologica» sugli interessi commerciali nazionali relativi all’olio di palma. L’ideologia diventa pericolosa quando cerca di imporre verità considerate immutabili, cercando di confermarle attraverso un uso deterministico della scienza. Questo limita il dibattito critico tipico del metodo sperimentale, rallentando così la diffusione delle conoscenze.
E c’è chi ne approfitta.
Molti interessi finanziari e imprenditoriali sfruttano queste ideologie per promuovere i propri prodotti, piegando le regole a proprio vantaggio. Questo tentativo di modificare i gusti dei consumatori e, di conseguenza, le tradizioni culinarie locali attraverso leggi, come nel caso del Nutriscore, della «dieta planetaria» e delle tasse di scopo, si inserisce perfettamente in questo schema. Le conseguenze non intenzionali di tali politiche possono essere devastanti e, inoltre, non sempre contribuiscono al miglioramento della salute dei cittadini.
A proposito del Nutriscore, ci spiega quali sono le criticità che ravvisa in questo strumento?
Il Nutriscore è stato concepito come uno strumento per combattere l’obesità, ma finora i risultati non sono stati incoraggianti: l’obesità continua ad aumentare, anche nei paesi che hanno adottato sistemi simili. Il Nutriscore punta il dito contro tre specifici nutrienti, incoraggiando la loro riduzione sia nella produzione che nel consumo. Tuttavia, l’obesità non è causata solamente da questi tre elementi. Si tratta di un problema complesso e multifattoriale, che dipende tanto dallo stile di vita e dal Dna quanto, e solo in parte minore, da ciò che mangiamo. Il sistema di valutazione del Nutriscore si basa su una quantità di 100 grammi, ignorando che le calorie dovrebbero essere calcolate per porzione, rendendo l’algoritmo facilmente manipolabile: non si riducono gli ingredienti «nocivi», ma si aumentano quelli «benefici». È un approccio troppo semplificato che, sebbene possa sembrare attraente per il consumatore, risulta ingannevole.
Come mai dice questo?
Il modello «one size fits all» del Nutriscore induce ogni consumatore, diverso dagli altri, a scegliere tra «buono» e «cattivo», ignorando che il vero problema non è il nutriente stesso, ma la dose e il contesto specifico di chi lo assume. Questa metodologia fa parte di un’ideologia più ampia, in cui si presume che il consumatore non sia capace di fare scelte informate, e lo Stato, attraverso una scienza dichiarata assoluta ma non effettiva, decide di «prendersi cura» di lui imponendo decisioni.
A cosa può portare questo approccio ideologico?
Le conseguenze non intenzionali di questo approccio sono severe: si nega al consumatore la libertà di scelta e l’opportunità di educarsi, limitando così la diffusione del sapere, l’emancipazione individuale e la diversità. Inoltre, le aziende alimentari sono spinte a modificare le loro ricette per apparire «salutari», altrimenti rischiano di essere escluse dal mercato. Siamo di fronte a un tipico scenario europeo, in cui lo Stato, piuttosto che riconoscere i propri fallimenti nell’educare i cittadini, sceglie di negare loro la libertà di scelta e di apprendimento.
Esiste davvero, come sostiene il centrodestra, l’intenzione occulta di modificare le abitudini, le tradizioni e la libertà di scelta alimentare delle popolazioni europee?
Assolutamente. Esistono gruppi che intendono modificare le abitudini alimentari per interessi ideologici legati al salutismo e all’ambientalismo, come evidenziato dalla «dieta planetaria», negando il diritto di scelta. È illuminante leggere i documenti dell’Oms, dove scienziati e funzionari parlano apertamente della necessità di negare la libertà di scelta al consumatore, ritenuto incapace di fare scelte valide per il bene comune. Altri, ovviamente, agiscono per interessi commerciali, cercando di generare un’economia di scala. Nel mio libro «iFood», descrivo questo fenomeno come l’«iPhonizzazione della nutrizione».
Cosa significa?
Prodotti come l’iPhone e altri beni globali hanno ottenuto il loro successo sul mercato grazie al loro valore intrinseco. Invece, nell’ambito alimentare, si tende a imporre regole per definire cosa sia salutare e cosa no, «guidando» così le scelte dei consumatori. Questo rappresenta una forma di dittatura alimentare.
Qual è la sua opinione sulla battaglia per la sovranità alimentare che il governo Meloni e in particolare il ministro Lollobrigida stanno portando avanti?
La nozione di sovranità ha un impatto limitato in un paese come l’Italia, che è noto per produrre beni di alta qualità, sia buoni che belli, ma che si trova ad affrontare limitazioni nella quantità prodotta e costi elevati di produzione. In questo contesto è essenziale, come già facciamo, continuare a esportare prodotti di alta qualità e a importare materie prime che scarseggiano o sono assenti nel nostro territorio.
Può essere una ricetta valida anche in Europa?
Questa realtà è applicabile anche al resto dell’Europa. Dobbiamo quindi valorizzare e proteggere ciò che produciamo, investire in competitività e produttività, senza però chiuderci ai mercati esteri. Nonostante la reputazione di paese con eccellenze agricole, l’Italia è, a livello numerico, prevalentemente un paese di trasformazione alimentare, quindi industrializzato. È tempo di superare l’idea che l’industria sia intrinsecamente «cattiva», o meno «genuina».
Non è così?
Al contrario, l’industria contribuisce positivamente, attraverso investimenti, creazione di posti di lavoro, innovazione e produzione di conoscenze. Inoltre, permette ai prodotti agricoli e ai semilavorati di raggiungere mercati globali, soddisfacendo le necessità di diverse popolazioni.
Quale sarebbe dunque la strada migliore per educare i cittadini a uno stile di vita più sano e rispettoso dell’ambiente?
Fornire al consumatore gli strumenti per educarsi, ovvero per acquisire conoscenze che consentano di fare scelte consapevoli, richiede tempo e può comportare fallimenti, ma rappresenta l’unica via percorribile in una società aperta (rispetto allo strumento Nutriscore tipico di una società chiusa). Grazie ai progressi della scienza e alle innovazioni tecnologiche nell’ambito dell’Internet delle cose e dell’intelligenza artificiale, i consumatori oggi hanno la possibilità di scegliere e personalizzare la propria alimentazione in modo sempre più preciso.
Tornare alla buona vecchia dieta mediterranea può essere una soluzione?
La dieta mediterranea incarna perfettamente questa filosofia: non si limita a essere un regime alimentare o uno stile di vita, ma è un metodo che insegna a scegliere, basandosi su una dieta equilibrata. Dobbiamo imparare a progettare uno stile di vita bilanciato, proprio come suggerisce la dieta mediterranea, che è sinonimo di benessere, longevità e gioia. In un mondo globalizzato e intriso di ideologie, la dieta mediterranea rischia di essere minacciata. Se un tempo le sue pratiche venivano tramandate naturalmente, oggi è essenziale che i consumatori le studino approfonditamente e ne apprendano il metodo.
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