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Opinioni

Silvia Boltuc: «Netanyahu vuole allargare il conflitto, l’Iran no»

L’analista specializzata Silvia Boltuc, direttrice di Special Eurasia, commenta al DiariodelWeb.it la rappresaglia dell’Iran contro Israele e i possibili scenari

Fabrizio Corgnati

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Riproduzioni di lanciamissili davanti alle bandiere di Iran e Israele (© Fotogramma)

Gli oltre 300 droni, missili da crociera e missili balistici lanciati nella tarda serata di sabato 13 aprile dall’Iran contro Israele hanno alzato ulteriormente la tensione, se mai ce ne fosse stato bisogno, nell’area mediorientale. Tel Aviv ha risposto, venerdì scorso, con una serie di esplosioni nei pressi della base aerea di Isfahan, provocando danni lievi. Il timore di un allargamento del conflitto regionale, o addirittura della temuta terza guerra mondiale continua ad aleggiare, anche nelle narrazioni dei grandi media internazionali. Per spiegare le ragioni e gli intenti di questo attacco e soprattutto i possibili esiti, il DiariodelWeb.it ha intervistato Silvia Boltuc, analista specializzata e direttrice di Special Eurasia.

Silvia Boltuc, cominciamo dall’inizio: come si è arrivati all’attacco a Israele da parte dell’Iran?
Più che altro parlerei di risposta, perché è stata preceduta dall’attacco di Israele all’ambasciata iraniana a Damasco, in Siria. Come sappiamo, le ambasciate sono considerate territorio del Paese che rappresentano, quindi è stato a tutti gli effetti un attacco al territorio sovrano dell’Iran.

Quella è stata la prima mossa.
Lo specifico perché attacchi a convogli e al personale delle forze armate iraniane in Siria avvengono già da anni. Ma questo è stato un atto diverso, anche dal punto di vista simbolico e del diritto internazionale. Ha avuto una fortissima risonanza in Iran e ha sancito un precedente importante, anche perché ha portato alla morte di sedici persone, tra cui un importante generale, Mohammad Reza Zahedi.

Vale la pena sottolinearlo, perché invece da noi in Occidente non ha avuto la stessa eco.
L’Iran non può farsi vedere debole, per mantenere la propria reputazione interna ed esterna, quindi la deterrenza. Dunque la risposta doveva essere forte ed emblematica, anche per l’impatto mediatico. Doveva soddisfare i cittadini scesi in piazza a protestare e dimostrare agli occhi del mondo la potenza militare della Repubblica islamica.

Questa risposta è stata il lancio di 300 tra droni e missili, nella tarda serata di sabato 13 aprile.
Il mio giudizio è che lo scudo di protezione israeliano, l'”Iron Dome”, abbia fatto il suo dovere, intercettando il 90% dei missili. Molti sono stati anche abbattuti in volo dai suoi alleati, come Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Con le stesse monarchie del Golfo c’è stata una condivisione d’intelligence: questo è il secondo dato importante.

Come mai?
Perché l’Iran ha avvertito dell’attacco e ne ha condiviso i dettagli con alcuni Paesi limitrofi, alleati degli Usa: in sostanza li ha messi in condizione di prepararsi. Da analisti, questo ci lascia intendere che la ritorsione iraniana volesse essere di grandi proporzioni, ma non produrre un danno così grave da arrivare alla guerra aperta.

Un attacco più dimostrativo che effettivo.
Gli iraniani sono grandi strateghi e in passato hanno dimostrato di saper mandare in tilt l’Iron Dome. Non posso pensare che non avessero previsto che i missili sarebbero stati intercettati.

Insomma, non hanno alcun interesse a un’escalation.
Assolutamente no. Per questo, dopo il 7 ottobre, pur avendo elogiato Hamas l’Iran ha precisato di non farne parte e di non essere stata messa al corrente dei piani. Vuole mantenere il conflitto a bassa intensità, come è sempre stato negli ultimi anni. Ma mi preme sottolineare anche un’ultima cosa.

Prego.
Con buona probabilità il governo Netanyahu, invece, ha attaccato l’ambasciata iraniana con l’obiettivo esattamente contrario: ottenere una risposta forte e creare una guerra aperta.

E perché?
Al di là del fatto che da anni cerca il conflitto con l’Iran, Israele ha subìto un grosso calo reputazionale. Non è isolato, perché non ha perso le alleanze, ma stanno iniziando a vacillare. Dunque la volontà era quella di ricompattare il fronte in chiave anti-iraniana, cioè contro un nemico dell’Occidente. La stessa cosa che è successa con il conflitto in Ucraina, che ha provocato la riunificazione della Nato.

Ma Israele ci sta riuscendo davvero, o piuttosto continua a isolarsi sempre di più?
Secondo me non ci è riuscito. Probabilmente perché, anche se non vuole dirlo apertamente, l’Iran ha comunicato l’attacco ai servizi segreti occidentali. Voleva concederci qualcosa in cambio di una nostra pressione su Israele. Infatti gli Usa hanno chiarito che, se Tel Aviv risponderà, lo farà senza il loro appoggio. Questo è un messaggio importante.

Che è stato ripetuto anche dagli altri governi alleati.
Il nostro ministro degli Esteri, Tajani, ha riconfermato il suo posizionamento geostrategico a fianco di Israele, ma ha anche affermato che quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza ora è troppo e che ci vuole un cessate il fuoco. L’Italia non è un Paese leader, ma se arriva a dire questo è perché c’è stato un coordinamento con gli Usa.

Persino Biden ha tirato il freno a mano.
Sì. E pure la Turchia, che è nella Nato anche se a volte non sembra, ha sottolineato a carte scoperte la mancata denuncia dell’attacco israeliano all’ambasciata di Damasco, in violazione del diritto internazionale. Una difesa turca all’Iran ha pochi precedenti.

In questo scenario, è davvero probabile che si arrivi alla famigerata terza guerra mondiale?
Difficile prevederlo. Se dovessi lanciarmi in una previsione, secondo me no, per i motivi che ho detto. Rispetto ai conflitti di qualche decennio fa, oggi abbiamo il vantaggio della presenza del web: le popolazioni occidentali ricevono immagini e testimonianze da Gaza, che hanno avuto un profondo impatto. La pressione sui governi è molta e l’appoggio a Israele non è più così massiccio come prima.

Addirittura quello degli Stati Uniti, come abbiamo visto.
Gli Stati Uniti non vogliono l’allargamento del conflitto e stanno facendo ciò che è in loro potere per evitarlo. Anche se le elezioni sono in vista e non si diventa presidenti senza l’appoggio della lobby israeliana. Una guerra sarebbe devastante anche per i progetti nazionali e internazionali dei Paesi arabi limitrofi, quindi stanno tutti lavorando per una de-escalation. Perfino l’Iran, nemica dichiarata di Israele, aveva dichiarato che con la loro rappresaglia la situazione era chiusa.

Nemmeno dentro Israele tutti sono d’accordo ad allargare il conflitto, perché il gabinetto di guerra si è spaccato.
Anche gli israeliani hanno paura. Dobbiamo ricordare che, nell’attesa dell’attacco iraniano, Israele si è dovuta fermare, con danni economici pazzeschi. Lo stesso “Iron Dome” costa tantissimo. Una guerra aperta e prolungata causerebbe grossi problemi alla sussistenza della nazione. E poi il 70% delle armi israeliane vengono fornite dagli Usa: se non ci fosse un pieno appoggio, il rischio è che si chiudano i rubinetti.

Forse l’unico a favore è proprio lo stesso Netanyahu, perché sa che nel giorno del cessate il fuoco dovrebbe fare i conti con i suoi guai giudiziari.
Probabilmente sa che non rimarrebbe al potere neanche un giorno. Dovrebbe rispondere anche all’accusa di non aver riportato a casa tutti gli ostaggi, una recriminazione che ha portato la popolazione a scendere in piazza contro l’operato del loro governo. L’unico a volere l’allargamento del conflitto è Netanyahu, per questo lo ritengo uno scenario improbabile, ma non impossibile. La speranza è che la macchina diplomatica internazionale riesca ad avere la meglio su questi attacchi reciproci.

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