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Opinioni

Vittorio Manes: «Il ministro Nordio ha ragione: le intercettazioni vanno riformate»

È polemica sulle dichiarazioni del ministro. Al DiariodelWeb.it parla Vittorio Manes, professore di diritto penale, avvocato e autore del libro «Giustizia mediatica»

Fabrizio Corgnati

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Vittorio Manes, docente di diritto penale all'Università di Bologna e avvocato

Al centro del dibattito politico in questi ultimi giorni sono tornati i temi della giustizia. Merito (o colpa, a seconda dei punti di vista) del ministro Carlo Nordio. Presentando la relazione annuale sulla giustizia al Senato, il guardasigilli ha manifestato la sua volontà di modificare la disciplina delle intercettazioni, scatenando le prevedibili polemiche dal fronte giustizialista. Ma il titolare del dicastero di via Arenula non è l’unico a ritenere che il ricorso a questo strumento d’indagine, negli ultimi anni, si sia accompagnato in non pochi casi ad abusi. Il DiariodelWeb.it ha interpellato il professor Vittorio Manes, docente di diritto penale all’Università di Bologna e avvocato, che a questo tema (e ad altri a esso collegati) ha dedicato il fortunato libro «Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo», edito dal Mulino.

Professor Vittorio Manes, che cosa pensa delle parole del ministro Nordio?
Trovo le sue preoccupazioni e le sue proposte d’intervento assolutamente comprensibili e condivisibili. A mio avviso il ministro, che non mi pare abbia certo messo in discussione lo strumento delle intercettazioni in quanto tale, sta mettendo in evidenza un problema che esiste. E che ha due aspetti.

Quali?
Da un lato il ricorso forse troppo diffuso, senza particolare rigore rispetto ai presupposti applicativi fissati dalla legge. Questo strumento d’indagine è indubbiamente importante, ma al contempo comporta un’ingerenza molto significativa nella sfera dei diritti fondamentali dei cittadini.

Si deve trovare un equilibrio tra queste due istanze.
Esatto: la difesa sociale, l’individuazione di eventuali reati ed eventuali responsabilità, ma anche la corona di libertà dell’individuo. Astrattamente, questo è l’equilibrio tipico di uno Stato di diritto.

Oggi questo equilibrio manca?
Sulla base dell’esperienza che si vive nella prassi giudiziaria si registra una tendenza molto largheggiante a richiedere la disponibilità di intercettazioni, da parte delle procure, e ad ottenerle, da parte dei giudici. Spesso in assenza di una notizia di reato precisa e circostanziata. Questo crea un primo slittamento: uno strumento di ricerca della prova diventa troppo spesso strumento di ricerca della notizia di reato.

Le famose intercettazioni a strascico, come vengono chiamate in termini giornalistici.
Sì. E si percepisce che un atteggiamento di poco rigore esiste anche nel rispetto dei limiti di utilizzabilità imposti dal codice, che vengono superati con varie interpretazioni di aggiramento.

Ad esempio?
Un limite di grande valenza sistematica è quello indicato dall’articolo 270 del codice di procedura penale, che vieta l’utilizzo di intercettazioni in procedimenti diversi da quello nel quale sono state disposte. Magari si attivano le intercettazioni per un determinato reato, da cui poi ne emergono altri che non consentirebbero le intercettazioni, e per questi reati non possono essere utilizzate. È un limite fondamentale, spesso trasgredito, nonostante vi sia stato un importante intervento chiarificatore della Cassazione, a sezioni unite.

E il secondo aspetto a cui faceva riferimento?
Un dato altrettanto patologico: la consuetudine tutta italiana di dare divulgazione pubblica agli atti, in una fase preliminare quale quella delle indagini. Spesso vengono pubblicati sui giornali stralci dell’ordinanza cautelare, tutta intramata di intercettazioni telefoniche. Ma che è un atto adottato su richiesta del pubblico ministero dal giudice, senza un confronto con la difesa.

Le intercettazioni non solo vengono disposte con eccessiva disinvoltura, ma poi vengono anche date in pasto all’opinione pubblica.
E questo finisce per trasformare il mezzo di ricerca della prova in un mezzo di prova. Una volta pubblicato sul giornale, agli occhi di chi legge e nell’immaginario collettivo viene letto come una prova del fatto.

Anche se il processo non è ancora nemmeno iniziato.
Oltretutto le intercettazioni telefoniche, prima di entrare nel bagaglio probatorio di un processo, devono essere controllate nella loro affidabilità tecnica tramite una perizia di trascrizione. Ma soprattutto devono essere verificate nel contraddittorio tra le parti, nella dialettica tra accusa e difesa. Spesso una certa affermazione viene spiegata alla luce delle argomentazioni difensive attraverso una lettura di contesto che ne dà un significato completamente diverso. Un’affermazione, per grave o scabrosa che possa apparire, può risultare una illazione, o persino una millanteria, se riletta e contestualizzata.

Se invece la frase viene estrapolata e sbattuta in un titolo di prima pagina, la si può leggere come meglio conviene.
In non pochi casi si opera una selezione arbitraria, capziosa, dei passaggi che possono maggiormente scuotere l’attenzione. E viene preso per oro colato quello che invece non lo è. Oltretutto c’è anche un terzo elemento, non meno importante.

Mi dica.
Bisogna distinguere fra i diversi mezzi d’intercettazione. Quella telefonica o ambientale con i mezzi captativi tradizionali, come una cimice, è un tema; il captatore informatico, ovvero il famoso trojan horse, è un altro. È un’invasione a giorno nella vita privata e familiare di un individuo: nel diritto, come lo definisce la Corte suprema americana, «a essere lasciati soli». Con gli strumenti offerti oggi dalle nuove tecnologie, il problema di quel bilanciamento costituzionale così importante, tra dovere di accertamento del reato e diritti dei cittadini in gioco, diventa vertiginoso.

Questi strumenti, insomma, sono ancora più intrusivi.
Certamente. La domanda di fondo che si dovrebbe rivolgere ai cittadini è: fin dove siamo disposti a rinunciare alle nostre libertà pur di assicurare una presunta sicurezza? Recentemente è stato presentato anche il ddl Zanettin, che vorrebbe limitare molto o eliminare l’uso del trojan per taluni reati, come quelli contro la pubblica amministrazione, conservandolo per i macrofenomeni criminosi come mafia e terrorismo. Francamente, trova la mia sommessa condivisione, che peraltro si accoda a quella di autorevoli magistrati, anche inquirenti, e professori di procedura penale. Cito ad esempio Nello Rossi e Luca Marafioti, intervenuti sulla rivista «Questione giustizia».

Molti magistrati e giornalisti replicherebbero che senza le intercettazioni non si sarebbero scoperti parecchi reati.
Non vorrei apparire provocatorio, ma a questa affermazione è troppo facile replicare che, senza la tortura, non si sarebbe combattuta neanche la stregoneria. Per citare una frase celebre del giudice della Corte suprema israeliana Aharon Barak: «Una democrazia matura deve avere il coraggio di combattere il crimine con una mano legata dietro la schiena». Cioè senza disporre di tutti gli strumenti che il potere coercitivo può attivare, altrimenti al cittadino non resta più nulla.

Come a dire che il fine non giustifica tutti i mezzi.
In uno Stato di diritto, il fine non giustifica mai i mezzi. Anzi, proprio l’adeguatezza e la proporzionalità dei mezzi rispetto allo scopo è uno dei princìpi cardine.

È recente il caso del ritiro della candidatura di Giuseppe Valentino alla vicepresidenza del Csm. Il suo nome era stato scelto, pare, dalla stessa Meloni, ma all’improvviso è spuntata la notizia dell’indagine a suo carico per presunti rapporti con la ‘ndrangheta. Peccato che quell’indagine, nata proprio da un’intercettazione, risalga a dieci anni fa e nel frattempo fosse finita in un cassetto, senza portare mai ad alcuna accusa formale.
Non vorrei entrare nel caso concreto, ma è un caso che fa riflettere molto. Perché indica lo stato di salute della presunzione d’innocenza nel nostro Paese e anche il livello a cui è giunto da tempo  lo scontro politico.

Appunto. Sulle questioni di opportunità politica si può discutere, ma la presunzione d’innocenza dove è andata a finire?
La presunzione d’innocenza è una garanzia primordiale nell’architettura della Costituzione, forse il fulcro dei principi fondamentali in materia penale. Però penso che in questo Paese, ormai da tempo, versi in condizioni di grande debolezza. E andrebbe presa molto sul serio. Anche se purtroppo ci si rende conto dell’importanza di certi principi e valori solo quando si sperimenta, sulla propria pelle, la loro negazione. Ed è troppo tardi.

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1 Commento

1 Commento

  1. Avatar

    Mauro

    23 Gennaio 2023 at 15:10

    completamente d’accordo. l’abuso di intercettazioni e/o il cattivo uso sono la dimostrazione della debolezza ed impotenza dello Stato ed al tempo stesso dimostrano l’arroganza delli Stato, messa in atto soprattutto dai politici di sx, che si riempiono la bocca di democrazia e libertà, ma nella prassi si comportano da dittatori, oppressori, senza alcun rispetto di quei valori, di cui, a parole dicono di esserne garanti. parola di ex dipendente sip/telecom, conoscitore dei sistemi e della prassi delle intercettazioni. cordialità

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