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Opinioni

Davide Rossi: «Uscire dalla Via della Seta sarà un danno per l’Italia»

Stati Uniti, Brics, Europa e Pacifico: al DiariodelWeb.it il punto sulla fibrillazione geopolitica del mondo dello storico e giornalista Davide Rossi

Fabrizio Corgnati

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I ministri degli Esteri cinese Wang Yi e italiano Antonio Tajani a Pechino (© Fotogramma)

Il modello unipolare americano che si sta sgretolando, l’alternativa dei Brics che cresce, l’Europa sempre più marginale a livello internazionale e la guerra in Ucraina che è molto meno pericolosa per le sorti globali rispetto a quella che gli Usa potrebbero scatenare nel Pacifico. È un mondo decisamente in fibrillazione quello che si presenta sotto i nostri occhi, spesso difficile da interpretare da chi è abituato a sentirselo raccontare solo attraverso la narrazione di parte occidentale. Il DiariodelWeb.it ha fatto il punto con Davide Rossi, docente, storico e giornalista, direttore del centro studi Anna Seghers di Milano e dell’Istituto di storia e filosofia del pensiero contemporaneo della Svizzera italiana.

Davide Rossi, che cosa sta succedendo sullo scacchiere geopolitico?
Quando è iniziata la guerra in Ucraina, all’Onu, le nazioni dell’Africa e dell’America latina hanno iniziato a votare in modo dissimile dall’Occidente, spesso astenendosi. Per un anno e mezzo noi occidentali abbiamo cercato di rendere credibile quella che ormai è una favola: quella del consenso planetario alle nostre posizioni.

Non è così?
In realtà le posizioni del mondo unipolare, legato agli Usa e alla Nato, raccolgono il consenso del Canada, dell’Europa, di Israele, del Giappone, della Corea del Sud, dell’Australia e della Nuova Zelanda, più qualche piccola nazione poco significativa in giro per il mondo.

E qui si inserisce il progetto dei Brics?
La proposta di un mondo multipolare di pace avanzata da Cina e Russia è una costruzione che prende il via circa vent’anni fa e che si nutre di un consenso sempre più vasto, perché chiede di tornare allo spirito originario dell’Onu: tutte le nazioni della Terra devono collaborare per decidere il destino dell’umanità.

Detta così, è difficile non concordare.
Il principio da cui partono i cinesi è che solo se l’intera umanità starà meglio anche i cinesi potranno migliorare le loro condizioni. L’esatto contrario della cultura statunitense dei cowboy: arrivo, rubo tutto, lascio qualche elemento come tv, musica e film che dica che io sono il più bravo del mondo e il depredato mi amerà.

La famosa esportazione della democrazia.
Un altro problema non da poco del mondo occidentale è che continuiamo a credere sempre di essere i democratici. I presidenti che prendono valanghe di voti veri, come Erdogan, vengono definiti autocrati, mentre quelli eletti da piccole minoranze, come i nostri, vengono definiti democratici.

La nostra narrazione non è condivisa da tutti, insomma.
Agli occhi della maggioranza dell’umanità, il nostro furto delle materie prime è un metodo sorpassato, neocoloniale. In Africa, in Asia, in America latina la Cina ha investito a fondo perduto, nel 2022, più soldi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. I suoi progetti di cooperazione e sviluppo sono reali e in ogni caso le materie prime vengono pagate dieci-venti volte di più.

Oggi questi nodi sembrano venire al pettine.
Io uso da quindici anni la parola «multipolare». Ora anche gli altri analisti e i grandi mezzi di informazione hanno dovuto ammettere questo concetto. Da qui nasce tutta l’attenzione nei confronti dei Brics. Che pure, così come sono descritti, in modo unitario, non esistono.

In che senso?
Nel senso che il Brasile di Lula e il Sudafrica sono evidentemente schierati con Cina e Russia, così come Iran, Venezuela e Arabia Saudita. L’India in realtà gioca una partita da sola, di non allineamento: un terzo polo il cui obiettivo a lunghissimo termine è di porsi a capo del mondo occidentale. E raccoglie anche un certo consenso tra le nazioni che prima erano schierate con il fronte dell’Occidente e non hanno intenzione di porsi al fianco di cinesi e russi, perché non si fidano.

Ma se il mondo sta cambiando è più merito dei Brics o demerito degli Stati Uniti, che non sono riusciti a imporre il loro modello unipolare?
La responsabilità principale del fallimento è sicuramente del modello stesso. Della presunzione, arrogante e superficiale, di immaginare una sua naturale esportazione a tutta l’umanità dopo la fine del socialismo sovietico. Che gli Usa potessero imporre se stessi e tutto il resto del mondo accettasse di essere felicemente subalterno. Mai calcolo fu più sbagliato.

Adesso Washington rischia grosso.
Il candidato alle presidenziali Ron DeSantis ha previsto che, se il dollaro non sarà più valuta di scambio internazionale, non potranno più imporre sanzioni, la moneta si svaluterà tantissimo e non avranno nessuna possibilità di svolgere il loro ruolo come nell’ultimo secolo.

E l’Europa?
Mario Draghi, quando andò a inginocchiarsi da Joe Biden, disse chiaramente che l’Unione europea è ancillare rispetto alla Nato. Quindi è di fatto un’istituzione morta, un ammennicolo della logica militare del primato statunitense, che difende il dollaro con i suoi cannoni. Ma che si sta sgretolando, è in un declino irreversibile.

Ci dobbiamo rassegnare a questa situazione per sempre o c’è la possibilità, in prospettiva, che assumiamo un ruolo più autonomo?
All’orizzonte non si intravede molto. Io auspico che l’Europa capisca che questa subalternità è perdente. Dovrebbe imparare dalla Svizzera di una volta: diventare un soggetto neutrale, indipendente, sovrano, in dialogo con il resto del mondo. La Ue, per obbedire agli Usa, nel 2002 non è stata in grado nemmeno di usare l’euro nelle relazioni economiche internazionali. Quando qualcuno l’ha chiesto, come Gheddafi, è stato ucciso. Purtroppo la stragrande maggioranza dei cittadini europei rimane concorde con la subalternità alla Nato, e così anche i politici, che mancano di coraggio.

Qualcuno ci ha provato, vedi il primo governo Conte quando firmò la Via della Seta.
Al netto di tutti i suoi limiti, quell’esecutivo provò a dare all’Italia un ruolo autonomo in politica internazionale: eravamo l’unico Paese del G7 ad aver aderito. Temo che il viaggio del ministro degli Esteri Tajani a Pechino serva a chiedere ai cinesi di non arrabbiarsi troppo quando ne usciremo, perché ce l’ha chiesto Biden a Washington durante il suo incontro con la Meloni. Ma uscire ci causerà un danno progettuale, politico ed economico. Ce ne siamo dimenticati, ma in quel 2017, al Quirinale, furono ricevuti sia Xi Jinping che Putin.

Anche l’Europa non è più centrale nel mondo?
Siamo marginali, insignificanti: un continente di poco meno di mezzo miliardo di persone, su otto miliardi complessivi. Siamo persone abbastanza anziane e benestanti: l’interesse del mondo è che manteniamo in buono stato luoghi culturalmente ammirevoli, dove si mangia bene, da visitare.

Ora abbiamo anche una guerra alle nostre porte.
Eppure, al netto degli estremismi polacchi o inglesi, non è interesse di nessuno portare il conflitto nell’Europa continentale. Il vero rischio, in realtà, è la guerra che gli Stati Uniti vogliono scatenare nel Pacifico. Gli accordi di isole come Kiribati o Salomone con la Cina minano il controllo statunitense del più grande mare del mondo, dove le basi militari vengono usate per garantire la movimentazione delle merci scambiate. Il vero destino del mondo si deciderà lì, non certo in Europa.

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