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Opinioni

Andrea Barchiesi: «Così la guerra in Palestina si combatte anche sui social»

I social network sono diventati un campo di battaglia virtuale, ma dalle conseguenze reali: ne parla Andrea Barchiesi, Ceo di Reputation Manager, al DiariodelWeb.it

Fabrizio Corgnati

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Una colonna di fumo dopo un attacco aereo israeliano a Gaza (© Fotogramma)

La guerra tra Israele e Palestina si combatte anche sui social. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, i video sul conflitto hanno raggiunto quasi 99 miliardi di visualizzazioni su TikTok, secondo uno studio di Reputation Manager, compresi quelli che contengono immagini manipolate e vere e proprie fake news. Un nuovo quanto pericoloso modo di fare propaganda e proselitismo, che rischia di avere conseguenze tutt’altro che virtuali sull’esito pratico dello scontro. Il DiariodelWeb.it ne ha parlato con Andrea Barchiesi, fondatore e Ceo della società autrice della ricerca, che si occupa di analisi, gestione e costruzione della reputazione online di aziende, brand, istituzioni e figure di rilievo pubblico.

Andrea Barchiesi, dunque anche i social network sono diventati un campo di battaglia?
Assolutamente sì, e ce ne eravamo accorti già dal conflitto russo-ucraino. La prima mossa di Putin fu quella di cambiare la terminologia, da «guerra» a «operazione militare speciale». Ridefinendo i termini si tenta di ridefinire la realtà.

Perché è così importante combattere sul terreno dei social?
Perché nelle democrazie il consenso è tutto. Spostare l’opinione pubblica in un senso o nell’altro cambia l’esito della battaglia. La posta in gioco è pratica: se le nazioni occidentali cominciassero a essere stanche di sostenere la causa ucraina, come farebbe quel Paese a resistere? La guerra di percezione sotterranea sui social è aspra.

E con quali armi si combatte?
Anche a colpi di disinformazione. Penso alla fabbrica di troll russi emersa nel 2020 a San Pietroburgo. C’era un’intera struttura dedicata a costruire profili falsi per intervenire nella vita sociale, a livello internazionale. Un’operazione estremamente complessa.

Come mai?
Perché un profilo Twitter non può chiamarsi «user712» e scrivere solo che Zelensky o Netanyahu sono criminali: non sarebbe credibile. Quindi questi soggetti fittizi parlano di altri argomenti, si creano delle vite dal nulla, per poi subentrare nel loro vero scopo nei momenti chiave.

Un esempio?
Tra loro c’era addirittura un giornalista, un certo Raphael Badani, con tanto di foto, biografia, curriculum, che scriveva su riviste internazionali di geopolitica. Aveva un solo difetto: non esisteva. Naturalmente questi soggetti, da soli, non hanno la capacità di incidere sull’intera rete, ma attivano gli altri nodi inconsapevoli.

In che senso?
Gli scontenti, i frustrati verso il mondo che li marginalizza, gli ignoranti che non conoscono i fatti. Sono forze già presenti nella società civile, a cui vengono dati impulsi, sostegni, materiali su cui discutere per rafforzare le loro convinzioni, anche fittizi.

A questi colpi l’Occidente come risponde?
Essendo democratico, cerca comunque il consenso, ma con una modalità più farraginosa, più sofisticata. Non può inventare, ma parte da dati di realtà, quindi lavora sulla comunicazione. Penso all’America che negli anni ci ha infiltrati con la sua cultura, partendo dal cinema di Hollywood.

Instagram, però, ha utilizzato anche il pugno di ferro: chi si schiera per la Palestina ha subìto il cosiddetto shadow ban, cioè i suoi post vengono meno visualizzati. Non c’è in gioco la libertà d’espressione?
Credo che il tema sia mal posto. Faccio un esempio pratico: se qualcuno butta la spazzatura in strada e noi la leviamo, stiamo limitando la sua libertà o stiamo ponendo delle regole base della convivenza civile?

Fuor di metafora?
Le notizie false sono la spazzatura. Qualunque persona può esprimere qualsiasi opinione, ed è giusto che sia così, ma se viene data un’informazione oggettivamente e palesemente sbagliata la questione è diversa. Questo è molto pericoloso per l’opinione pubblica di un sistema democratico, che si alimenta di fonti inquinate. Nei giornali non si potrebbe fare.

Eppure nei giorni scorsi anche la stampa internazionale ha preso degli sfondoni clamorosi, come nel caso dell’esplosione all’ospedale di Gaza.
D’accordissimo, ma lo hanno fatto pensando che fosse vero e poi le hanno cancellate. Qualche sciocchezza passa, ma esiste comunque un controllo.

Siamo tutti d’accordo a limitare la diffusione delle fake news, ma le legittime opinioni, anche contrarie alla narrazione ufficiale, invece dovrebbero poter circolare liberamente su tutte le piattaforme.
Quando si spegne una fonte non è per impedirgli di scrivere, perché quella persona non cambierà idea, ma è per impedire a chi legge di farsi un’opinione gravemente errata. Un conto è affermare di essere pro Palestina, che è legittimo. Un altro è aprire un canale sui crimini di Israele, riempito di documenti e interviste finte: questo significa diffondere disinformazione verificabile.

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3 Commenti

1 Commento

  1. Avatar

    Carlo Capanna

    30 Ottobre 2023 at 8:21

    questo è un pezzo dimmerda è che l’esclusiva delle boiate e delle notizie fuorvianti e destabilizzanti c’è la devono avere loro e il pezzo… lo sa che in qualsiasi momento il gioco si fa duro noi siamo costretti alla loro informazione

    • Avatar

      Burt

      30 Ottobre 2023 at 21:10

      Vergognoso, spazzatura, livello diariodelweb dopotutto.

  2. Avatar

    Canio Calisti

    30 Ottobre 2023 at 9:00

    che cialtrone questo Barchiesi. E’ proprio il classico difensore del pensiero unico e “guai a chi me lo tocca!”…

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